All’angolo?
Ieri è arrivata la conferma in appello per la condanna a 4 anni di carcere e 5 di interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale ai danni di silvio berlusconi. Dopo la litania dei vari schifanibrunettasantanchècapezzone che parlano ancora una volta di disgustosa persecuzione giudiziaria, è prevista per i prossimi giorni la solita manifestazione contro la magistratura politicizzata. Fin qui tutto tristemente già visto. L’unica novità è rappresentata dall’angolo in cui il PD, alleato di Governo del Caimano, potrebbe finire per mano del Movimento 5 Stelle e della propria dabbenaggine.
Nel silenzio dei democratici [D’Alema ha clericamente dichiarato che non si commentano le sentenze giudiziarie], l’unica reazione di sinistra alla sentenza del Tribunale di Milano – per quanto ovvia – è arrivata infatti proprio da Grillo, che ha affermato: «Berlusconi altrove sarebbe in carcere, da noi è uno statista». Sull’onda della condanna di ieri, il profeta del vaffanculo è deciso a chiedere l’ineleggibilità per il Cavaliere. La richiesta sarà basata sull’applicazione della legge del 1957 per cui i titolari di una concessione pubblica e i rappresentanti legali di una società che fa affari con lo Stato non possono essere eletti. Grillo lancia un guanto di sfida: «Vedremo chi voterà l’ineleggibilità. Mi mangio un cappello se sarà votata dal pdmenoelle». Cosa farà il PD, dopo aver lasciato che Nitto Palma arrivasse alla presidenza della Commissione Giustizia? Verrà definitivamente scavalcato a sinistra dai Cinque Stelle o farà, una volta tanto, qualcosa in linea con i desideri del proprio elettorato?
Il Divo Giulio
In una delle sequenze più significative de Il Divo, il film che 5 anni fa Paolo Sorrentino dedicò ad Andreotti, Scalfari intervista il leader democristiano, domandandogli se “è un caso” che il suo nome sia finito in tutte le vicende più oscure, nelle trame più intricate e nei delitti più orrendi della storia repubblicana. Andreotti lo guarda impassibile e poi gli risponde, gelido: «E’ un caso che io abbia salvato il suo giornale da Berlusconi, consentendole la libertà di venire qui e pormi domande sfrontate e capziose? E’ grazie a me se lei oggi può permettersi di essere così arrogante, presuntuoso e sospettoso nei miei confronti». «Guardi che le cose non stanno esattamente così. La situazione era un pò più complessa», replica uno Scalfari imbarazzato. E Andreotti di rimando: «Ecco, lei è abbastanza perspicace e l’ha capito da solo. La situazione era un pò più complessa. Ma questo non vale solo per la sua storia… vale anche per la mia».
Ed è proprio la complessità la considerazione fondamentale che deve riferirsi alla figura di Giulio Andreotti, 7 volte Presidente del Consiglio e 22 volte ministro, morto oggi all’età di 94 anni. E’ una complicata parabola personale quella del “Divo Giulio”, straordinaria metafora del potere che ha dominato l’Italia per 50 anni, lasciandoci tanti enigmi irrisolti. Un potere come strumento di Governo in cui si mescolarono politica, mafia, Vaticano, apparati dello Stato, logge massoniche deviate, alta finanza, in un intreccio inestricabile del quale Andreotti fu spesso al centro.
Larghi disaccordi
E così, alla fine, il Presidente Napolitano è riuscito a far bere al PD il calice amaro di un esecutivo col PdL. L’ipotesi tanto invisa sia all’elettorato del Partito Democratico che a tanti suoi esponenti si è materializzata al termine di uno stallo di due mesi. Più che di larghe intese però, si potrebbe parlare di larghi disaccordi, visto che berlusconi e Letta hanno espresso posizioni alquanto distanti, sia rispetto alla durata, che alla natura, che al programma, che alla composizione del Governo.
Un’operazione che ascrive berlusconi come il vero vincitore. Il Cavaliere finalmente ottiene ciò su cui aveva puntato fin dall’indomani delle elezioni, rappresentando il suo partito come forza responsabile e coesa a fronte della frantumazione del PD. Piazza Angelino Alfano allo strategico Ministero dell’Interno, e Quagliarello alle riforme, quindi anche a quella della giustizia e a quella elettorale. Le caselle riempite dal PdL sono diverse e pesanti e quelle non a suo appannaggio non sono comunque sgradite, come ad esempio la Cancellieri che va alla giustizia, offrendo una certa qual rassicurazione sul tema dei processi a carico di berlusconi. Poi naturalmente vince anche Grillo, che dopo aver denunciato da anni che PdL e PDmenoelle erano della stessa pasta, ora se li trova insieme al Governo, in uno scenario che gli permette di ricompattare il suo elettorato con affermazioni come questa: «Il governo che sta nascendo è un’ammucchiata degna del miglior bunga bunga. Tutti passivi tranne uno che di bunga bunga se ne intende». Il perdente? Naturalmente ancora una volta il PD, che si è mosso senza un minimo di dibattito che legittimasse una scelta tanto importante, incapace di motivare con chiarezza e convinzione il proprio cambio di linea.
La disfatta del PD
«Proporre oggi Giorgio Napolitano è una fuga dalla realtà per il Partito Democratico. E in corso la tessitura delle larghe intese. Vince l’ipotesi restauratrice rispetto al rinnovamento. Ha vinto Berlusconi». Così poco fa Nichi Vendola, che riferendosi a Grillo aggiunge: «Chi parla di golpe sbaglia drammaticamente, quella in corso è un’altra cosa. E’ un rinchiudersi nel palazzo, sprezzanti rispetto a quella domanda di cambiamento che sta scuotendo l’intera società italiana. E’ una clamorosa sordità quella che il Parlamento sta dimostrando». Il leader di SeL è durissimo col PD che esce inopinatamente disfatto da questi tre giorni di elezioni presidenziali. Incapace di dimostrare lo stesso coraggio e lo stesso senso di innovamento che solo un mese fa aveva portato Boldrini e Grasso alla presidenza delle Camere. Incapace di esprimere una linea politica chiara e coerente, partendo dal netto rifiuto di ogni ipotesi di larghe intese, passando poi per un accordo discusso con il PdL, terminando infine con la proposta del candidato più inviso a berlusconi. Incapace di spiegare al proprio elettorato perchè non si sia voluto appoggiare una personalità di sinistra, eminente come Stefano Rodotà. Incapace di trovare una sola figura condivisa fra le proprie fila. Incapace di risolvere antichi dissidi, contrasti, contrapposizioni tutte interni al partito, che hanno drammaticamente fatto precipitare la situazione fino alla dimissioni del Presidente e del Segretario.
Affidarsi ad un uomo di 88 anni, che a fine mandato ne avrà 95, forzando la sua volontà di ritirarsi a vita privata, dà la misura esatta della crisi disperata in cui è piombata la politica italiana che non ce la fa più a garantire la governabilità e la funzionalità democratica. Da domani il centrosinistra dovrà avviare un profondo processo di rinnovamento e rifondazione, pena la consegna del Paese ai grevi populismi di Grillo e berlusconi.
No, Marini no!
«Le istituzioni non sono solo funzioni. Sono anche simboli. L’Italia ha bisogno di competenza, lucidità, finezza politica e conoscenza dei meccanismi dello Stato. Ma anche di un segnale fortissimo di novità rispetto alla convinzione diffusa, giusta o sbagliata che sia, di essere soffocati da una nomenclatura immobile e autoconservativa». Così ieri il giornalista Marco Bracconi sul suo blog.
Solo un mese fa il PD pareva aver perfettamente appreso la lezione che era arrivata dalle urne. Aveva rifiutato qualsiasi intesa con berlusconi, aveva messo in difficoltà Grillo chiedendo a gran voce una sua assunzione di responsabilità e aveva accantonato l’idea di collocare alla Presidenza delle Camere due figure come Franceschini e Finocchiaro, degnissime persone ma troppo legate alla gerarchia del partito. Con Boldrini e Grasso il PD era ripartito nel miglior modo dopo la “non vittoria” elettorale, dando l’impressione di essere finalmente in linea con le istanze di rinnovamento espresse dall’elettorato. Ecco perchè la scelta di portare al Quirinale il pur rispettabile Franco Marini, secondo una logora e consunta logica conservativa, rappresenta oggi un errore terribile. In un colpo solo allontana nuovamente il partito dai desiderata della società e ridà fiato e forza ai proclami qualunquisti del M5S che nelle ultime settimane era in costante calo di consensi. Ciò che è difficile da digerire è che Bersani si sia incapponito nel cercare un’intesa con berlusconi, finendo per votare un sindacalista democristiano della Prima Repubblica, già candidato alla Presidenza della Repubblica nel 1999, mentre dall’altra parte i Cinque Stelle [corteggiati fino al giorno prima in funzione governativa] esprimevano la candidatura di un’eminentissima figura della sinistra come Stefano Rodotà, che – nonostante l’età – incarna sicuramente una scelta più coraggiosa ed innovativa. Se poi – come ha ammonito Nichi Vendola – questo accordo PD-PdL costituisse la prova d’orchestra di un governissimo, significherebbe fare i conti con pesantissime ripercussioni sul futuro della coalizione di centrosinistra.
Il Lato Positivo
Pat è affetto da personalità bipolare, esplosa scoprendo la moglie in flagrante adulterio. Dimesso dall’ospedale psichiatrico, dove era finito per aver picchiato a sangue il rivale, prova a riadattarsi alla vita dopo il divorzio e aver perso casa e lavoro, crogiolandosi nella speranza di riconquistare l’ex moglie. Questo fino a quando nella sua vita non arriva un’altra mezza matta, una vedova che a seguito della morte del marito si è lasciata andare ad atteggiamenti promiscui. Una ragazza bella e tenace che grazie al ballo troverà la chiave per farlo rinsavire.
Il Lato Positivo di David O. Russell è indiscutibilmente un bel film, ben pensato, ben strutturato e recitato ancor meglio da un cast perfetto in ogni suo componente. Fra le prime linee da segnalare l’Oscar per la migliore attrice protagonista andato a Jennifer Lawrence. Fra le seconde il ruolo più convincente degli ultimi 15 anni per un Robert De Niro raramente così preciso e misurato. La pellicola – in perfetto equilibrio fra toni brillanti e drammatici – rappresenta davvero una rarità in un genere, la commedia, francamente svilito da decenni di farse, satire, parodie e storielle sentimentali. Un lavoro calibratissimo e coraggioso che sfugge ad ogni banalità e riesce a trattare con delicatezza ed ironia temi difficili come le malattie mentali e la depressione, ed in cui ciascun personaggio, anche se “minore”, è ben definito grazie a degli ottimi dialoghi. In italiano il libro da cui è tratto il film si intitola l’orlo argenteo delle nuvole, come a dire che c’è sempre qualcosa di buono anche in pieno maltempo. E’ il lato positivo delle cose, quello che i due protagonisti riescono a trovare al termine di un percorso che li conduce al riscatto personale e all’amore.
Renzi in campo
Matteo Renzi ha sempre avuto la capacità di cogliere gli umori della gente e di adeguarvisi in breve tempo. Abilissimo in particolare nell’opporsi al sistema politico pur facendone parte, cavalca a suo modo l’ondata di sfiducia per la cosiddetta casta. Ecco perchè ieri ha incitato il suo partito ad attuare provvedimenti come l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, una nuova legge elettorale, la soppressione delle Provincie e i tagli alla politica in genere. E via di questo passo ha continuato attaccando tutto l’establishment, accusandolo di essere lento in un frangente che invece richiederebbe di correre a velocità doppia. «Ho solo detto quello che pensa il 95% degli italiani» ha spiegato con la consueta schiettezza, dichiarandosi poi pronto per nuove elezioni.
I sondaggi recenti lo indicano come il politico di gran lunga più affidabile di tutti e, sotto la sua guida, collocano il PD al 36%. Ed è proprio grazie a questo notevolissimo consenso popolare che Renzi ha deciso di entrare di fatto in campagna elettorale. In tal senso si deve leggere l’ospitata ad Amici, dove si è presentato con tanto di giubbino di pelle e jeans che fanno tanto gggiovane. In questo momento soltanto il sindaco di Firenze è in grado di erodere il consenso giovanile a Grillo. Alle scorse elezioni hanno votato per il santone del vaffanculo oltre il 47% degli under 24 e quasi il 38% degli under 30. Tendenza inversa per il Partito Democratico [30,4% fra gli over 60 e 26,3% fra gli under 30], che come non mai avrebbe bisogno di svecchiarsi, ed affidarsi ad una nuova generazione di dirigenti in grado di farsi portavoce credibile delle istanze del mondo giovanile. A febbraio Bersani aveva concluso la sua campagna elettorale in un teatro insieme a Nanni Moretti. Oggi Renzi rilancia la sua sfida andando da Maria de Filippi in TV. Qualcosa [purtroppo] dovrà pur significare.
Fra demagogia, insulti e menzogne
Per i grillini si è sempre in campagna elettorale. Quella per cui chiunque non condivida la loro superiorità morale è un morto vivente o un cadavere putrefatto. Nonostante l’ingresso in parlamento, la politica del santone del vaffanculo continua ad essere quella della becera violenza verbale e dell’attacco indiscriminato ai partiti tutti, egualmente responsabili – senza alcuna distinzione – della situazione in cui ci troviamo. Ecco allora che Bersani, berlusconi, Cicchitto, e Monti diventano i «padri puttanieri che hanno governato tutti insieme per 20 anni e che ci prendono allegramente per il culo ogni giorno». Uno spudorato esercizio di volgarità, superficialità e qualunquismo, a cui si unisce un malcelato amore per la menzogna strumentale, che porta i cinquestelle a ripetere di aver conseguito più voti di tutti alla Camera. Da una forza politica che si ripromette di sbugiardare i vecchi partiti ci si aspetterebbe un rispetto maggiore per la verità, anche per quella scomoda, quella cioè che stabilisce che il PD ha ottenuto circa 150.000 voti in più di Grillo. Dati definitivi del Viminale, comprensivi del voto degli italiani all’estero.
Il tutto condito – naturalmente – da fiumi di demagogia, come quella ad esempio che impone che le riunioni con rappresentanti di altri partiti vengano fatte in streaming video, mentre quelle interne – caratterizzate a quanto si dice da frizioni e dissidi – ovviamente debbano restare coperte dal più assoluto riserbo. Oppure quella che porta a definire le voci critiche al Movimento come appartenenti a troll prezzolati [da chi non è dato saperlo]. Sempre la medesima demagogia, ad esempio, ha fatto credere a molti fra gli elettori del Movimento che Grillo puntasse al rinnovamento, salvo rendersi conto soltanto ora – vista la mancata assunzione di responsabilità nei confronti di un Governo del cambiamento – che l’obiettivo reale sia in effetti quello dello sfascio definitivo dell’intero sistema politico istituzionale.
Il giorno dopo
Un nuovo disco di David Bowie è un evento, specie se arriva a ben 10 anni esatti dal precedente e dopo un delicato intervento al cuore che pareva aver messo la parola fine alla carriera di una delle più grandi icone della musica rock. Ed invece, pochi giorni fa è arrivato The Next Day, preparato in gran segreto con il fondamentale aiuto di Tony Visconti, il produttore che ha diviso con Bowie le sue opere più importanti.
Si tratta di un lavoro molto compatto e asciutto, essenzialmente rock con venature psichedeliche, che presenta una serie di spunti musicali interessantissimi. C’è un’atmosfera di ritorno al passato con citazioni, rimandi e rievocazioni sul filo della memoria, che però ben si sposa a suggestioni e sonorità più attuali. Ed è proprio intorno al passaggio del tempo – ed in particolare alla contrapposizione fra presente e passato, fra la figura del Bowie attuale e quella, ormai affidata all’immaginario collettivo, del Bowie giovane ed androgino degli Anni 70 – che si sviluppa l’idea centrale dell’album, a cominciare dalla rivisitazione ironica della copertina di Heroes del 1977. Un album ricco, intenso e curatissimo, tradizionale e creativo insieme, che migliora ad ogni nuovo ascolto; pervaso da una voce ancora graffiante e potente, la voce inconfondibile ed unica del sottile duca bianco.