Il Divo Giulio
In una delle sequenze più significative de Il Divo, il film che 5 anni fa Paolo Sorrentino dedicò ad Andreotti, Scalfari intervista il leader democristiano, domandandogli se “è un caso” che il suo nome sia finito in tutte le vicende più oscure, nelle trame più intricate e nei delitti più orrendi della storia repubblicana. Andreotti lo guarda impassibile e poi gli risponde, gelido: «E’ un caso che io abbia salvato il suo giornale da Berlusconi, consentendole la libertà di venire qui e pormi domande sfrontate e capziose? E’ grazie a me se lei oggi può permettersi di essere così arrogante, presuntuoso e sospettoso nei miei confronti». «Guardi che le cose non stanno esattamente così. La situazione era un pò più complessa», replica uno Scalfari imbarazzato. E Andreotti di rimando: «Ecco, lei è abbastanza perspicace e l’ha capito da solo. La situazione era un pò più complessa. Ma questo non vale solo per la sua storia… vale anche per la mia».
Ed è proprio la complessità la considerazione fondamentale che deve riferirsi alla figura di Giulio Andreotti, 7 volte Presidente del Consiglio e 22 volte ministro, morto oggi all’età di 94 anni. E’ una complicata parabola personale quella del “Divo Giulio”, straordinaria metafora del potere che ha dominato l’Italia per 50 anni, lasciandoci tanti enigmi irrisolti. Un potere come strumento di Governo in cui si mescolarono politica, mafia, Vaticano, apparati dello Stato, logge massoniche deviate, alta finanza, in un intreccio inestricabile del quale Andreotti fu spesso al centro.