La partita del Senato
La fine della legislatura
Napolitano ha sciolto le Camere. La parola torna al popolo sovrano. La legislatura, che si è conclusa qualche giorno fa, era cominciata nel segno di un berlusconi trionfante. Non aveva semplicemente vinto le elezioni. Aveva spopolato, guadagnando una maggioranza granitica. Per buona parte del suo mandato aveva dispiegato il suo potere in modo incontrollato, calpestando spesso la dignità della politica, disponendo della cosa pubblica per finalità private e circondandosi di una classe dirigente prona ai suoi voleri e completamente priva di senso dello Stato. Un’impasto che ha costituito l’humus per un drammatico declino sociale contraddistinto dall’aumento del debito pubblico e delle tasse, dalla diminuzione dell’occupazione e dall’impoverimento del ceto medio. Un declino che si è mescolato alla più grande crisi economica internazionale del dopoguerra. Il suo impero mediatico ha nascosto a lungo i mali del Paese, fino a quando una sconvolgente serie di scandali ha minato la credibilità del suo esecutivo.
Il Governo Monti ha sicuramente rappresentato un’inversione di tendenza rispetto al precedente, in termini di considerazione internazionale. La sua politica però ha fallito perchè incapace di improntare la propria azione a principi di equità sociale. Sondaggi alla mano, Bersani – dopo essere riuscito a rintuzzare l’attacco di Renzi – deve solo convincere gli italiani della bontà del suo programma elettorale e, forse soprattutto, dell’affidabilità della coalizione che sta costruendo, per poter finalmente sedere a Palazzo Chigi e far voltare definitivamente pagina al Paese, dopo 20 anni di berlusconismo.
Monti fra corruzione interna e crisi internazionale
Nei giorni in cui l‘Europa conosce la sua crisi più dirompente e da più parti si inizia a considerare come imminente l’uscita della Grecia dall’Euro, il Parlamento italiano si spacca intorno al decreto anticorruzione. Un contrasto assai stridente che getta l’ennesima sconfortante luce sul senso di responsabilità della nostra classe politica e del PdL in particolare. Il partito di berlusconi infatti è fortemente contrario all’inasprimento delle pene per il reato di corruzione [chissà poi perchè], e per questo motivo non esita a mettere il Governo in grande difficoltà, proprio nel momento in cui invece dovrebbe distinguersi in ambito europeo per compattezza, forza e credibilità.
La spaventosa situazione della Grecia, esacerbata dalla politica di ferreo rigore impostale dalla Germania – unico Paese europeo il cui PIL è in costante crescita – è una bomba prossima ad esplodere. La sua possibile uscita dall’eurozona, infatti, potrebbe portare ad un “effetto domino” che vedrebbe l’Italia come una delle prossime vittime. La Merkel sta conducendo tutti gli altri Paesi europei verso un baratro che sarà possibile evitare soltanto se ci si libererà dal giogo tedesco. Ed in questo, Monti e Hollande potranno sicuramente giocare un ruolo di primissimo piano.
Il Governo Montusconi
Quando nel novembre scorso si insediò il Governo Monti, furono due i refrain ripetuti fino allo sfinimento. In primis l’azione dell’esecutivo sarebbe stata improntata a criteri di massima urgenza e circostanzialità. Avrebbe dovuto – cioè – porre in essere una serie di misure dirette esclusivamente a far uscire il Paese dalle sacche di una grave crisi. Tali misure, secondariamente, avrebbero perseguito fini di equità sociale, di modo da distribuire con giustezza i sacrifici che gli italiani avrebbero dovuto compiere.
Oggi, dopo 4 mesi di cura Monti, penso che non sia cosa azzardata sostenere che nessuno di questi due principi sia stato rispettato. Per molti versi la politica del nuovo Governo – come molti osservatori stanno evidenziando – si caratterizza piuttosto come una mera prosecuzione di quella del precedente. La finanziaria non ha previsto alcuna patrimoniale, l’IVA è stata portata al 23%, e lo smantellamento dell’Art. 18 è diventato il tema centrale della riforma del lavoro. Tre esempi fra gli altri che servono ad inquadrare come l’esecutivo si sia limitato a procedere lungo il solco di una politica illiberale ed autoritaria tipica della destra berlusconiana, perdipiù utilizzando la clava dell’apparente cifra tecnica e dell’ottima considerazione che fino ad ora gli è stata accordata da stampa ed opinione pubblica. Una politica che peraltro sta mettendo sempre più in difficoltà il Partito Democratico, diviso fra la fedeltà al Governo e la difesa dei diritti dei lavoratori.
Ripensare la politica
Le vicende legate alla controversa realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione in Val di Susa, sono assurte da tempo agli onori della cronaca. Mi domando perchè a fronte delle crescenti manifeste perplessità, e non mi riferisco soltanto a quelle portate avanti dagli abitanti della zona, quanto in particolare a quelle di tecnici, studiosi e ricercatori, il Governo abbia preferito assumere una posizione intransingente. E’ della scorsa settimana uno studio di ben 360 docenti ed esperti che evidenzia le ambiguità di un’opera come la TAV e si appella a Monti affinchè riconsideri il progetto. A fronte di così tanti dubbi, esistono però anche delle certezze. E’ cosa certa, infatti, che nel momento in cui si esauriscono gli spazi per un confronto e una mediazione, arrivi sempre la violenza. Altrettanto sicuro è che laddove ci siano concentrazioni di masse, meglio ancora se sotto i riflettori dei media, si infiltrino immancabilmente agenti provocatori o persone animate da logiche ed interessi diversi da quelli sul tappeto.
E’ evidente ormai come la vicenda della TAV abbia travalicato i problemi originari, e sia diventata simbolica del malessere che la gente avverte nei confronti della politica e delle istituzioni, non più percepite come rappresentative delle istanze popolari. E’ forte il bisogno che la nostra democrazia torni ad essere partecipativa e metta al centro del proprio agire la capacità di dialogare e comprendere, e non tanto lo sterile scontro fra tifoserie contrapposte.
Posto fisso? Che noia, che barba, che noia!
E così è arrivata anche la seconda dichiarazione infelice in una settimana. E’ un brutto segnale, tanto più brutto perchè il protagonista di questa nuova gaffe è il Presidente del Consiglio in persona, che – invitato mercoledì a Matrix – ha affermato: «Che monotonia il posto fisso». Una frase “forte” che si va ad aggiungere a quelle sull’articolo 18 che non dev’essere più considerato un tabù. Affermazioni che se fossero state fatte da berlusconi [in effetti lo stile ricorda proprio quello di certi proclami dell’ex premier], avrebbero portato alla sua crocefissione. Quanto detto da Monti svilisce qualcosa che per tanti è un punto di arrivo e per troppi è soltanto una pia illusione. Basti pensare ai milioni di precari: è di pochi giorni fa la stima dell’ISTAT per cui un giovane su tre è senza lavoro. Si pensi anche ai cinquantenni che, una volta estromessi dal mercato del lavoro, non sono più in grado di rientrarvi. Per non parlare poi delle banche che certamente non concedono mutui a chi non ha una posizione stabile, o dei mille stage gratuiti e senza prospettive con cui le imprese si garantiscono lavoro a costo zero.
L’elogio alla flessibilità fatto da Monti in realtà nasconde l’invito a rassegnarsi ed accettare una società ingiusta, in cui i “monotoni” in questione vengono chiamati a districarsi fra periodi più o meno lunghi di disoccupazione e fra un lavoro precario e l’altro, senza diritti nè sbocchi. Ed è proprio questo che è più inaccettabile della dichiarazione del Premier, rilasciata da chi – invece – dovrebbe per primo dare l’impulso perchè emerga finalmente una nuova Italia.
I senza vergogna
Cominciamo col dire che questa manovra economica non rispetta certo i principi di equità sociale con cui Monti si era presentato. Stabilito questo, le critiche che gli sono piovute addosso in queste ultime ore da parte di berlusconi e l’ignobile gazzarra che la Lega ha portato al Senato e alla Camera, dimostrano in modo inequivocabile il becero populismo e la sfacciata ipocrisia di cui sono capaci il Cavaliere e Bossi. E’ stato proprio il loro Governo, infatti, che ha condotto l’Italia a questa drammatica situazione. Non dimentichiamoci che fino al mese scorso la crisi veniva sminuita o persino negata. Il premier trascorreva il suo tempo insieme alle nipotine di Mubarack o comprando i propri sostenitori in Parlamento, mentre Bossi approvava qualsiasi legge ad personam del suo degno compagno di merende.
Le riforme di questi giorni si sarebbero dovute effettuare già da tempo e si sono rese ancor più urgenti proprio perchè chi ha governato per la gran parte degli ultimi 17 anni è stato incapace di mantenere le promesse fatte, lasciando sprofondare l’Italia sull’orlo del baratro. Ancora in queste settimane sia berlusconi che bossi parlano di pericolo comunista e di difesa della libertà, usando toni e linguaggi che apparivano vecchi e logori già nel 1994. Due anziani parolai il cui immobilismo è ormai patologico. E’ assolutamente legittimo criticare Monti e la sua manovra, ma gli unici che non possono attaccare chi – certamente commettendo degli errori – sta cercando di trovare dei rimedi allo sfascio di questo Paese, sono coloro i quali hanno determinato questo stato di cose.
L’antitesi antropologica
L’incarico sarà affidato a Mario Monti, un uomo che di berlusconi è «l’antitesi antropologica. Difficile immaginarlo con Mangano in giardino, Gelli e Craxi al piano di sopra, Tarantini dietro la porta, Ruby nel lettone e Lavitola al telefono». Ex Rettore e Presidente della Bocconi, ex Commissario Europeo, in qualità del quale inflisse una multa pesantissima a Microsoft per comportamenti contrari alle normative antitrust, è uomo che ha fatto del rigore [parola caduta in disgrazia durante il berlusconismo] la sua cifra personale e professionale. Come editorialista del Corsera è sempre lui, più recentemente, a criticare aspramente berlusconi all’indomani della sua dichiarazione sull’Euro che non avrebbe convinto nessuno: «A ogni rialzo dei tassi, dovuto alla scarsa fiducia nell’ Italia, Lei finisce per imporre sacrifici ancora maggiori agli italiani. Anche le parole non sorvegliate hanno un costo». Un bel segnale per un nome che rappresenta non solo competenza e serietà [altri termini desueti nell’Italia degli ultimi 20 anni], ma soprattutto la garanzia di un Paese credibile, capace di cambiare registro e politica.