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Categoria: oscar

Oscar è mio zio!

Oscar è mio zio!

Ho visto gli 8 film candidati agli Oscar 2015 che verranno assegnati domenica prossima. Nessun capolavoro, almeno tre buoni film e qualche autore sopravvalutato è il risultato complessivo. Di seguito riporto alcune brevissime considerazioni su ognuno dei lavori in questione, partendo da quello che più è piaciuto, per scendere via via fino a quello meno convincente.

The Imitation Game di Morten Tyldum
Pellicola dall’impianto classico, ben confenzionata seppure un pò convenzionale. La vicenda narrata – quella del matematico Alan Turing, uno dei padri del moderno computer, che durante la Seconda Guerra Mondiale salvò di fatto la vita a milioni di persone – è talmente interessante che riesce a far dimenticare i difetti del film. Un cast affiatato di attori inglesi, su cui primeggia Benedict Cumberbatch, fa il resto. Teso e coinvolgente.

Selma di Ava DuVernay
E’ la ricostruzione fedele di una delle pagine più importanti della recente storia Americana: le tre marce organizzate da Martin Luther King nel 1965 per la rivendicazione del diritto di voto ai neri. Un ritratto asciutto e rigoroso degli eventi, privo di inutili spettacolarizzazioni, con incursioni interessanti nella vita del reverendo King, con i suoi dubbi, le sue frustrazioni e la sua tenace determinazione. Ottimo il protagonista David Oyelowo, come tutto il cast di primissimo ordine al suo fianco. Solido e accorato.

Whiplash di Damien Chazelle
Racconta il gioco al massacro fra due personaggi estremi: un giovane che è disposto a rinunciare a tutto – sanità mentale e fisica comprese – pur di diventare il miglior batterista del mondo ed il suo sadico professore di musica (uno strepitoso J. K. Simmons). Schema già visto altre volte, ma trattato con una certa originalità. Intenso ed onesto.

Boyhood di Richard Linklater
Decisamente innovativa l’idea di girare per dodici anni consecutivi con gli stessi attori, una manciata di giorni ogni anno, per testimoniare i cambiamenti, anche fisici, di un bambino che diventa adolescente e della sua famiglia nell’America di oggi. Peccato che la sceneggiatura non sia altrettanto originale, ma si limiti a descrivere un susseguirsi di ordinarie scenette familiari,  poco avvincenti. La durata eccessiva poi non aiuta. Esperimento non del tutto riuscito.

Birdman di Alejandro González Iñárritu
Un film in cui lo stile sovrasta la storia. Un mix, freddo e logorroico, fra Viale del Tramonto, The Wrestler e Il Cigno Nero. Non si riesce a provare empatia per nessuno dei personaggi, tutti un pò sopra le righe anche se ben interpretati. Pretenzioso.

La Teoria del Tutto di James Marsh
Un lavoro di caratura televisiva. Il personaggio di Stephen Hawking – cumunque ben interpretato da Eddie Redmayne – viene trattato con la grana grossa di chi non sa trovare spazi per sfaccettature o approfondimenti. Piatto.

American Sniper di Clint Eastwood
Eastwood decide di  raccontare la vera storia di Chris Kyle, il più temibile cecchino americano della guerra in Iraq.  Il film però si limita ad essere una stanca ripetizione di missioni militari e scontri a fuoco, a cui si alternano le banali e appena abbozzate dinamiche familiari e personali di Kile di ritorno a casa dopo ogni missione. Ne deriva un lavoro monoespressivo, troppo schematico e superficiale, non esente da una certa retorica patriottica a stelle e strisce.

Grand Budapest Hotel di Wes Anderson
Anderson evidentemente non riesce a realizzare film che non siano infarciti di personaggi stralunati, inquadrature ardite e colori pastello. Il risultato è un lavoro autoreferenziale e fine a se stesso che risulta noioso oltre il lecito. Operina compiaciuta tutta ghirigori, ma senza sostanza.

Oscar 2015

Oscar 2012 – parte terza

Oscar 2012 – parte terza

Paradiso Amaro di Alexander Payne: un ricco avvocato trascura la famiglia per via del lavoro, ma quando la moglie entra in coma irreversibile, a seguito di un incidente nautico, si ritrova a dover recuperare il rapporto con le figlie e a fare i conti con una difficile verità, da affrontare insieme al dolore. Nonostante il grande sfoggio di camicie sgargianti nel pieno stile delle Hawaai – dove la storia è ambientata – il film scivola via in modo incolore, con qualche caduta di troppo nel facile sentimentalismo. Payne, regista e sceneggiatore, va alla continua ricerca dell’equilibrio perfetto fra ironia e malinconia, ma finisce invece col normalizzare ogni aspetto dell’intreccio, per un risultato finale privo di guizzi o reali emozioni. George Clooney, che pure si impegna in un ruolo che domenica potrebbe portargli l’Oscar, non sfugge alla medesima sorte.

War Horse di Steven Spielberg: la storia di una amicizia tra un cavallo e un ragazzo, separati dallo scoppio improvviso della prima guerra mondiale. L’animale passerà di proprietario in proprietario, per tutta la durata del conflitto. Spielberg realizza un film che possiede i pregi e i difetti tipici del suo cinema. Pertanto, mentre da una parte risultano evidenti la cura e la maestria della messa in scena, dall’altra è sin troppo facile criticare l’eccesso di retorica e l’apologia dei buoni sentimenti. Questi ultimi però – trattandosi di un film per ragazzi – sono aspetti che stridono meno che in altre occasioni. La pellicola diventa uno strumento per dimostrare ancora una volta la concezione che il suo autore ha del Cinema: ossia quella di una appassionata fabbrica dei sogni a cui lasciarsi andare senza troppe sovrastrutture razionali. In questo senso War Horse è sicuramente un lavoro che emoziona e coinvolge. Piace inoltre l’omaggio cinefilo a mostri sacri come l’Anthony Mann di Winchester 73, il John Ford di Un Uomo Tranquillo, il Victor Fleming di Via col Vento e, in ultimo, lo Stanley Kubrik di Orizzonti di Gloria.

Oscar 2012 – parte seconda

Oscar 2012 – parte seconda

Hugo Cabret di Martin Scorsese è un formidabile gioco di prestigio, un trucco portentoso, esattamente come quelli che l’illusionista Georges Méliès – a cui il film è dedicato – proponeva alla sua platea a teatro, prima di diventare il più grande regista dei primi del Novecento. Apparentemente infatti Hugo Cabret si presenta come una delle tante fiabe per ragazzi, ma man mano che l’intreccio si svela, però, ecco che il film si trasforma in un intenso omaggio alla magia del Cinema, attraverso la figura del regista francese, mago del montaggio e pioniere degli effetti speciali. La vicenda è quella di un dodicenne appassionato di congegni meccanici che, rimasto orfano a cavallo fra gli Anni 20 e 30, vive nascosto nella stazione di Parigi dove ripara orologi e cerca invano di far funzionare un misterioso automa. Ma la trama, che scorre via senza particolari scossoni o sorprese, non è il punto di forza della pellicola, che invece trova la sua vera ragione d’essere nel recupero della meraviglia e dell’incanto del Cinema degli albori. The Help di  Tate Taylor:  tratto dal best sellers di Kathryn Stockett,  racconta della segregazione razziale nel profondo Sud degli Stati Uniti durante gli Anni 60, attraverso le storie delle padrone bianche e delle loro domestiche nere. Uno splendido cast tutto al femminile per un film coinvolgente, dall’impianto classico, estremamente curato in ogni suo aspetto, che riesce – nonostante il tema delicato – ad esprimersi su una sottile linea di equilibrio fra spunti ironici e momenti di commozione. The Help dimostra infatti la grande qualità di trattare con levità, senza mai scadere nel patetismo, il dramma sociale che più ha segnato la storia americana del secolo scorso.

Curiosamente, due fra le pellicole più accreditate alla vittoria finale degli Oscar – The Artist e Hugo Cabret [10 nomination il primo, 11 il secondo], riflettono entrambe sui valori fondanti della Settima Arte. Ma mentre il lavoro del francese Hazanavicius si mantiene in superficie, in un modo – se vogliamo – anche un pò “furbo” e ruffiano, il regista newyorchese si spinge a riflettere sui meccanismi stessi dell’immaginario collettivo. Il Cinema in questo senso è come uno di quei congegni che Hugo Cabret ama riparare, che ha bisogno di una chiave a forma di “cuore” per prender vita. Quello stesso cuore che – partendo dai fotogrammi dipinti a mano di Méliès – ci ha condotti oggi, 100 anni dopo, alle potenzialità espressive della tecnologia digitale del film di Scorsese.

Oscar 2012 – parte prima

Oscar 2012 – parte prima

Come ormai consuetudine quando arriva febbraio, riporto le mie considerazioni su alcuni dei film coinvolti, a vario titolo, alla corsa per gli Oscar.

The Artist di Michel Hazanavicius: per realizzare oggi un film muto ed in bianco e nero ci vuole sicuramente una buona dose di coraggio. La scommessa però è ampiamente vinta. The Artist infatti è un film piacevolissimo che narra del delicato passaggio dal cinema muto al sonoro e del repentino declino che tale mutamento produsse fra molti dei divi degli Anni 20. Il regista francese ricostruisce con grande cura ed eleganza lo spirito stilistico delle pellicole dell’epoca, destreggiandosi sia sul registro dell’ironia che su quello del dramma, con un sapiente gioco di omaggi e rimandi al Cinema del passato. Resta da capire se dietro un’operazione del genere ci sia più cuore o più calcolo, ammesso che sia sempre possibile distinguere ed ammesso che sia importante farlo. La Talpa di Tomas Alfredson: tratto dal noto romanzo di John Le Carrè, racconta della ricerca di un agente doppiogiochista pagato dai russi, all’interno dei servizi segreti inglesi. Lo stile visivo, già presente nel lavoro precedente del regista svedese, è estremamente compassato e lento, con un ripetuto utilizzo del carrello che alla fine risulta ridondante. La sceneggiatura, eccessivamente frammentata in una struttura a flashback, rende l’intreccio difficile da seguire. Se ne ricava un’impressione generale di freddezza, che la recitazione minimale dei protagonisti certo non aiuta a dissolvere. Perdipiù una scelta del casting non così felice fa intuire chi sia la talpa, ben prima della scena finale. E questo per un thriller è un peccato mortale. 

Dal momento che tanto Jean Dujardin – con la sua enfatica e gigionesca interpretazione in The Artist – quanto Gary Oldman – con una recitazione per La Talpa tutta giocata al risparmio e alla sottrazione – sono seri candidati alla conquista dell’Oscar come miglior attore, è lecito domandarsi perché una giusta via di mezzo, come quella offerta da Di Caprio in J. Edgar, non sia neppure stata presa in considerazione dai membri dell’Academy. 

Oscar 2011 – parte seconda

Oscar 2011 – parte seconda

Il Grinta di Joel e Ethan Coen: I fratelli Coen si accostano con rispetto all’epopea western senza stravolgere i topoi del genere. Il film è crepuscolare, condito dal loro tipico umorismo e permeato con toni da favola nera. In questo senso il rimando non è solo alla pellicola omonima del 1969 con John Wayne, ma anche a La morte corre sul fiume di Charles Laughton. La storia è quella di una cocciuta ed arguta quattordicenne che assolda uno sceriffo, ormai anziano e dedito all’alcol, per trovare l’assassino del padre. Jeff Bridges interpreta magnificamente Reuben Cogburn, detto da tutti il Grinta, stella sul petto e una vistosa benda sull’occhio, cinico e disilluso assassino per conto della legge, anarchico e burbero, archetipo degli ultimi eroi virili di un’epoca che sta per teminare. «Il tempo ci sfugge» è l’ultima disincantata battuta che i Coen consegnano alla ragazzina diventata donna, che – molti anni dopo, nello splendido finale – va alla ricerca di chi l’ha aiutata a vendicare la scomparsa del padre, per scoprire che è morto dopo una passerella nel circo di Buffalo Bill. Il west selvaggio, implacabile ed affascinante non esiste più, al suo posto restano solo degli invecchiati protagonisti di un spettacolo itinerante, parodia di ciò che furono una volta. Un lavoro impeccabile questo dei fratelli Coen, personale e classico allo stesso tempo, che in breve tempo è diventato il loro film più di successo. The Fighter di David O. Russel: Ispirato alla vera storia di due fratelli di Boston, il maggiore, ex grande promessa del pugilato caduto in disgrazia a causa della sua tossicodipendenza, aiuterà l’altro a combattere per il titolo mondiale dei pesi leggeri. Storia di disagio e riscatto sociale attraverso la boxe, non certo originale, ma sostenuta da un cast superlativo che rende il film molto più efficace quando ritrae le dinamiche familiari che si sviluppano intorno ai due protagonisti, rispetto ai momenti in cui l’azione si sposta sul ring. Una pellicola sicuramente robusta, dall’impianto classico che riesce a mantenersi interessante pur senza particolari guizzi. 127 Ore di Danny Boyle: La storia è quella vera di un alpinista rimasto intrappolato per cinque giorni in un canyon dello Utah. Nonostante l’estrema drammaticità, la vicenda non è certamente facile da raccontare, considerata la staticità di fondo e la carenza di sviluppi e snodi narrativi. Danny Boyle, già autore di Trainspotting e The Millionaire, prova a superare l’empasse con una regia fatta di montaggio serrato, colori accesi, musiche rock, ed artifizi visivi che alla lunga però risultano ridondanti ed invasivi, mentre il personaggio principale – per quanto ben interpetato da un volenteroso James Franco – rimane troppo poco caratterizzato per essere empatico e provocare un reale coinvolgimento da parte del pubblico. Resta la sensazione di un film pretenzioso e povero di autentiche emozioni.

Anche quest’anno la giuria non ha avuto il coraggio necessario e ha finito per premiare un film dignitoso ma innocuo come Il discorso del Re, che non possiede nè l’acuta analisi delle contraddizioni della società contemporanea di The Social Network, nè tantomeno la formidabile riflessione metacinematografica di Inception. Dispiace che a fronte di 10 nominations il film dei fratelli Coen non abbia conquistato alcun premio. Avrebbe certo meritato Jeff Bridges che nei panni del Grinta fornisce una prova semplicemente maestosa. Bravissimo anche Colin Firth, ma pure in questo caso appare troppo facile e scontata la scelta di premiare l’interpretazione di un personaggio affetto da una qualche disabilità [si pensi – solo per fare qualche esempio – all’ Al Pacino di Profumo di Donna, al Tom Hanks di Forrest Gump, al Dustin Hoffman di Rain Man, al Daniel Day Lewis de Il Mio Piede Sinistro, o al Jon Voight di Tornando a Casa]. Legittimo il premio a Christian Bale che in The Fighter dimostra nuovamente un grande talento ed una eccezionale capacità di modellare il proprio corpo in funzione del personaggio interpretato.

Oscar 2011 – parte prima

Oscar 2011 – parte prima

Di ritorno dalla visione di 3 film in lizza per la conquista di diversi Premi Oscar, riporto alcune sintetiche impressioni.

Il Discorso del Re di Tom Hooper: L’impacciato Re Giorgio VI d’Inghilterra soffre di una grave forma di balbuzie che lo rende incapace di tenere discorsi pubblici. Con il paese sull’orlo della Seconda Guerra Mondiale, è costretto a rivolgersi ad un logopedista, i cui metodi poco ortodossi lo aiuteranno a ricoprire con autorevolezza il proprio ruolo e ad aprirsi ad una duratura amicizia. Pellicola impeccabilmente britannica, tutta dialoghi e magnifiche prove attoriali, fra cui spiccano quelle di Colin Firth e soprattutto di Geoffrey Rush. Ha il limite di guardare troppo alla forma e poco ai contenuti, finendo col risultare eccessivamente manierata. Il Cigno Nero di Darren Aronofsky: Una compagnia di balletto di New York sta allestendo il classico di Chaikovskij “Il lago dei cigni”. Per poter interpretare al meglio oltre che il Cigno Bianco, simbolo di candore ed innocenza, anche il suo opposto – il Cigno Nero – un’ambiziosa ballerina è costretta a fare i conti col suo lato più oscuro ed ossessivo. Thriller psicologico a tinte forti, inutilmente compiaciuto ed esibizionista. Nonostante Natalie Portman fornisca una prova straordinaria, il film si perde nella ricerca dell’eccesso facile e nella presenza di qualche clichè di troppo, finendo per diventare largamente prevedibile e non aggiungere nulla di nuovo alla sterminata filmografia esistente sul tema del doppio. Rabbit Hole di John Cameron Mitchell: La crisi di una coppia a seguito della morte del loro figlioletto di 4 anni in un incidente d’auto. Un film che descrive con grande misura, senza mai scadere nel patetismo, i differenti tentativi dei due di elaborare il dolore e ritrovare un senso alla propria esistenza. Un tema certo non originale per una pellicola che paga l’impianto teatrale e che va avanti senza particolari colpi d’ala, pur consentendo a Nicole Kidman di cucirsi addosso una delle interpretazioni più riuscite della sua carriera.

12 candidature per il primo film, 5 per il secondo e 4 [ma non quella per il miglior film] per il terzo. Si tratta di lavori – specie gli ultimi due – non altrettanto convincenti di The Social Network, ammirato qualche mese fa ed in gara con 8 nomination. Lo stesso numero di Inception, a cui vanno le mie preferenze e che personalmente trovo sia l’unico – tra i dieci film candidati che ho visto – ad avere la statura dell’autentico capolavoro.

Ed il mio Oscar va a…

Ed il mio Oscar va a…

E’ un inverno caldo, perlomeno al cinema. Sono molti i film interessanti da vedere ed io non mi sono certo fatto mancare nulla. In queste ultime settimane ho visto 4 delle 5 pellicole candidate agli Oscar di domenica prossima e posso dire che il mio personalissimo premio va a Il curioso caso di Benjamin Button con Brad Pitt e Cate Blanchett. L’ultimo lavoro di David Fincher sa coniugare con naturalezza fiaba e poesia, facendoti sgranare gli occhi per lo stupore e prorompere in oh di meraviglia. Il regista dispiega abilmente trucchi ed effetti speciali, sempre però al servizio di una visione calda e sentimentale, e mai tecnologica, nè tantomeno irrealistica. Stilisticamente superbo, il film narra le bizzarre vicende di un uomo che si trova a vivere il suo tempo al contrario [nasce vecchio e con gli anni ringiovanisce], e che per un breve ma intenso periodo riesce ad incrociare la donna della sua vita. Questa favola che commuove e travolge si presta a tante differenti considerazioni: il tema della diversità, l’importanza della forza di volontà, una riflessione sulla morte, la circolarità della vita, la ricerca della felicità, l’importanza di assaporare ogni momento, l’imprevedibilità, la fatalità del destino e, sopra tutto, l’unicità dell’amore, la sola cosa che dura e che è capace di sconfiggere persino il tempo.

In ordine le mie preferenze vanno poi a:

Milk di Gus Van Sant, un film notevole, che possiede il grande pregio di raccontare senza compiacimenti, nè tantomeno giudizi. Capace di emozionare ed analizzare al tempo stesso, è impreziosito da un’eccellente ricostruzione storica e dalla splendida ed intensa performance di Sean Penn, nel ruolo del primo uomo politico americano dichiaratamente gay. Convincenti tutti gli attori comprimari, aderenti appieno ai personaggi reali. Una pellicola straordinariamente attuale, se si considerano le cattive acque in cui tuttora navigano molti diritti civili, e che serve a ribadire – se mai ve ne fosse bisogno – il valore dell’impegno personale.

Ambientato come il film precedente negli anni 70, Frost/Nixon Il duello di Ron Howard, ha dalla sua la formidabile interpretazione di Frank Langella nei panni di Richard Nixon. La storia dell’intervista televisiva che il presidente americano diede tre anni dopo essersi dimesso, a seguito dello scandalo Watergate, è avvincente, però risente, in taluni passaggi, dell’impianto teatrale. Appare poi troppo insistito il parallelo con un match di boxe e troppo abusata la proposizione del classico schema scontro/sconfitta/seconda opportunità/vittoria.

The millionaire di Danny Boyle gode di un’ottima regia: montaggio serrato, inquadrature studiate, bella fotografia, grande cura nella scelta delle musiche. Però l’operazione di raccontare una storia d’amore nell’India attuale, prendendo le mosse da un quiz televisivo, si rivela piuttosto artificiosa. Lo sfondo di emarginazione e soprusi fra le baraccopoli di Mombay, e le vicende del bravo ragazzo che sfugge ad una vita destinata alla delinquenza e che con la propria tenacia riesce a diventare milionario, finiscono con l’apparire uno stereotipo. La tensione ne soffre e scema progressivamente con lo svolgimento del film, che via via presenta aspetti e situazioni sempre meno convincenti.