Pochi giorni fa Gene Hackman ha compiuto 80 anni. Nell’aspetto l’attore ha sempre dato l’idea di un uomo di mezza età e la sua faccia può essere definita come quella di una persona qualsiasi. Gangster Story, il primo film in cui si rivela il suo talento, risale al 1967, quando Hackman aveva già 37 anni. Ma è nei primi Anni 70, quando il vecchio star system di Hollywood inizia a perdere i colpi, che una figura come la sua trova uno spazio sempre maggiore da protagonista. Nel 1971 arriva il primo Oscar per l’interpretazione de Il braccio violento della legge, per la parte di un agente della narcotici che tenta di superare con la propria durezza la durezza di un mondo in cui valori e certezze sono completamente caduti. Ed è proprio l’America in crisi del dopo Vietnam e del Watergate che si interroga sul suo futuro e sugli errori del passato, che va mescolandosi ai tratti tipici dei personaggi più importanti che l’attore interpreta in quel periodo: antieroi ambigui, alienati, duri, diretti, in cerca di una personale redenzione. Tre interpretazioni che da sole giustificherebbero una carriera: in Lo Spaventapasseri con Al Pacino, è uno sbandato che attraversa l’America, espressione di un sistema schiacciante, all’inseguimento di un suo personale sogno. Ne La Conversazione di Francis Ford Coppola è un tecnico che per lavoro spia conversazioni telefoniche e che finisce col mettere in dubbio il senso stesso di ciò che fa. In Bersaglio di notte di Arthur Penn, è un investigatore privato da 4 soldi, un uomo dolente e disilluso da una vita piena di violenza ed incomunicabilità.
La facilità di entrare in qualsiasi personaggio gli ha consentito negli anni a venire di scegliere personaggi completamente differenti da quelli solitamente interpretati, riuscendo egualmente a restituire un’intensità immediata ed inimitabile. Tra i suoi ruoli più importanti, sicuramente quello dell’agente federale in Mississipi Burning di Alan Parker e quello dello sceriffo ne Gli spietati di Clint Eastwood, con cui conquista la seconda statuetta. A chi gli ha chiesto quale fosse il suo modo di intendere la recitazione, l’attore ha risposto «Nelle parti che ho interpretato c’è sempre qualcosa di me. Bisogna trovare qualcosa di sè nella parte e poi svilupparla. L’arte della recitazione è tutta qui». Non è ciò che si dice una definizione profonda, ma mostra una chiarezza, una consapevolezza ed un senso di professionalità che lo hanno reso uno dei più convincenti attori viventi.