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Categoria: cinema

Baciami come uno sconosciuto

Baciami come uno sconosciuto

«Gene Wilder è il miglior genere di scrittore che esista. Trascrive i suoi pensieri con assoluta semplicità. Sebbene dotato di ingegno acuto, questo suo tratto non interferisce mai con la narrazione. Sembrerebbe che non sia la mano a impugnare la penna, ma il cuore. Dice sempre la verità, bella o brutta, troppo personale o rivelatrice che sia. Nel suo libro dei ricordi, il lettore percepisce il dolore, il turbamento, l’imbarazzo e la gioia dell’autore come se le provasse in prima persona. Per Gene dire la verità è una mania ossessivo-compulsiva, eppure la racconta fino in fondo con meravigliosa ed elegante leggiadria. Gene ed io siamo cari amici dal lontano 1963».

Così inizia la prefazione di Mel Brooks a Baciami come uno sconosciuto, l’autobiografia di Gene Wilder pubblicata in Italia da Sagoma Editore lo scorso gennaio. Un libro scritto da Wilder con la stessa grazia leggera delle sue sceneggiature, che racconta la lunga parabola artistica dell’attore-regista settantaseienne, costellata da incontri con personaggi del calibro di Woody Allen, Orson Welles, Federico Fellini, Cary Grant e Peter Sellers, nonchè – naturalmente – Mel Brooks, Marty Feldman e Richard Pryor. Peraltro non tutti sanno che l’idea di Frankenstein Junior si deve proprio a Wilder, il quale è – per l’appunto – autore del soggetto, nonchè cosceneggiatore del capolavoro diretto dall’amico Brooks. In questa autobiografia però il grande comico non si limita a ripercorrere le tappe della carriera, ma – in un misto di dolcezza ed ironia – dedica grande spazio alle donne che lo hanno accompagnato durante la sua esistenza, ed in particolare alla terza moglie Gilda Radner, attrice amatissima negli Stati Uniti, morta nel 1989 a soli 43 anni per un tumore alle ovaie. A seguito di questa tremenda perdita, il divo fonda la Gilda’s Club, a sostegno della ricerca contro il cancro e dirada il suoi impegni professionali. Nel 1999, Wilder si trova a lottare in prima persona contro un tumore al sistema linfatico, che riesce a debellare grazie ad un trapianto di cellule staminali. Un libro ricco di aneddoti e ricordi che ci rimanda lo sguardo insieme disincantato e gentile di quest’ Artista di talento e ci restituisce una grande lezione di semplicità. «Se l’azione o il gesto che stai compiendo è divertente di per sé, non devi calcare la mano recitando in maniera buffa. Sii naturale e il divertimento aumenterà».

Uozzamericanboi

Uozzamericanboi

Il 24 febbraio di 7 anni fa si spegneva a 82 anni Alberto Sordi. La sua figura resta unica nella storia del Cinema Italiano. Si può dire che nessun altro, fatta eccezione per Totò, seppure con caratteristiche diverse sia per epoca che per caratterizzazione, sia riuscito a conquistarsi nel cuore del pubblico uno spazio così definito. Anno per anno, Sordi si è costruito la carriera con una determinazione senza eguali. Nel farlo ha dato vita ad un personaggio familiare a milioni di spettatori: astuto, vile, furbesco, ironico, coraggioso solo se costretto, romanesco sino al midollo e, al tempo stesso, beffardo verso tutto ciò che è la “romanità” corrente.

A partire dai primi Anni 50, l’attore trasferisce al cinema alcuni personaggi creati dalla sua fantasia e proposti alla radio, connotandoli di un elemento assolutamente inedito fino ad allora. Sordi infatti pare accanirsi ed infierire sul proprio personaggio, caricandolo di crudeltà. Primo esempio in Italia di un comico che, facendo ridere della propria abiezione, chiama il pubblico sia a solidarizzare col personaggio che a disprezzarlo insieme. L’incontro artistico che determina la prima svolta nella sua carriera è quello con Federico Fellini, col quale entra in due ruoli di spessore, due personaggi negativi e immorali, protagonisti rispettivamente de Lo sceicco bianco e de I Vitelloni. Ma è Mario Monicelli con La grande guerra del 1959, che consente a Sordi di esprimere un nuova maturità drammatica. Questo film,  un affresco memorabile sul conflitto del 1915-18, visto attraverso le vicende di due soldati pelandroni e vigliacchi, consente a Sordi un nuovo modo di recitare, che non esclude il suo enorme  talento comico, ma sapientemente lo mescola ad un tono tragico.

La lista delle interpretazioni di Sordi, in cui l’abituale chiave ironico-grottesca si arricchisce di accenti più amari, prende forma negli anni a venire, anche con individui rispettabili ed eroi positivi, come il tenente Innocenti in Tutti a casa [1960, di Luigi Comencini], il giornalista Magnozzi in Una vita difficile [1961, di Dino Risi], il commissario Lombardozzi ne Il Commissario [1962, sempre di Comencini] e lo sfortunato maestro Mombelli de Il maestro di Vigevano [1963, di Elio Petri]. A questi si uniscono, fra i tanti altri, il siciliano Badalamenti de Il Mafioso [1962, di Alberto Lattuada], il geometra Dinoi in Detenuto in attesa di giudizio [1971, di Nanni Loi] e soprattutto l’impiegato ministerale Vivaldi in Un borghese piccolo piccolo [1977, di Mario Monicelli]. Film che segna sia la fine della commedia all’italiana che il punto più alto della carriera di Sordi, che negli anni successivi si avvierà verso un lento declino. 

A kiss is just a kiss

A kiss is just a kiss

Il bacio è stato per molti anni il momento di maggior audacia a cui si potesse assistere nel buio di una sala cinematografica. Rigorosamente a labbra serrate, proprio per questo motivo riusciva ad essere incredibilmente erotico, stimolando la fantasia dello spettatore a proseguire con l’immaginazione quello che lo schermo non poteva mostrare. Chiunque abbia visto Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e la sequenza dei baci censurati, si è reso conto di come il bacio possa considerarsi il simbolo dell vecchio Star System hollywoodiano in cui i divi del cinema diventavano catalizzatori assoluti delle fantasie erotiche del pubblico.

Sono tanti i baci ad essere entrati di diritto nell’immaginario collettivo. Vittima di un improvviso rigurgito di romanticismo, o forse perchè dopodomani è San Valentino, provo a raccoglierne quindici, lasciandone fuori moltissimi altrettato belli, come il bacio fra Humphrey Bogart e Ingrid Bergman in Casablanca, quello fra Marlon Brando e Eve Marie Saint in Fronte del Porto, o ancora quello fra Clark Gable e Vivian Leigh in Via col Vento. Ed è proprio Gable, che, rivolgendosi alla sua partner, pronunzia questa straordinaria battuta: «Aprite gli occhi e guardatemi. No, non vi bacerò neanche, benché ne abbiate bisogno. E’ questo il guaio: dovreste essere baciata, e spesso, e da un esperto».

Gli 80 anni di un mito

Gli 80 anni di un mito

Pochi giorni fa Gene Hackman ha compiuto 80 anni. Nell’aspetto l’attore ha sempre dato l’idea di un uomo di mezza età e la sua faccia può essere definita come quella di una persona qualsiasi. Gangster Story, il primo film in cui si rivela il suo talento, risale al 1967, quando Hackman aveva già 37 anni. Ma è nei primi Anni 70, quando il vecchio star system di Hollywood inizia a perdere i colpi, che una figura come la sua trova uno spazio sempre maggiore da protagonista. Nel 1971 arriva il primo Oscar per l’interpretazione de Il braccio violento della legge, per la parte di un agente della narcotici che tenta di superare con la propria durezza la durezza di un mondo in cui valori e certezze sono completamente caduti. Ed è proprio l’America in crisi del dopo Vietnam e del Watergate che si interroga sul suo futuro e sugli errori del passato, che va mescolandosi ai tratti tipici dei personaggi più importanti che l’attore interpreta in quel periodo: antieroi ambigui, alienati, duri, diretti, in cerca di una personale redenzione. Tre interpretazioni che da sole giustificherebbero una carriera: in Lo Spaventapasseri con Al Pacino, è uno sbandato che attraversa l’America, espressione di un sistema schiacciante, all’inseguimento di un suo personale sogno. Ne La Conversazione di Francis Ford Coppola è un tecnico che per lavoro spia conversazioni telefoniche e che finisce col mettere in dubbio il senso stesso di ciò che fa. In Bersaglio di notte di Arthur Penn, è un investigatore privato da 4 soldi, un uomo  dolente e disilluso da una vita piena di violenza ed incomunicabilità.

La facilità di entrare in qualsiasi personaggio gli ha consentito negli anni a venire di scegliere personaggi completamente differenti da quelli solitamente interpretati, riuscendo egualmente a restituire un’intensità immediata ed inimitabile. Tra i suoi ruoli più importanti, sicuramente quello dell’agente federale in Mississipi Burning di Alan Parker e quello dello sceriffo ne Gli spietati di Clint Eastwood, con cui conquista la seconda statuetta. A chi gli ha chiesto quale fosse il suo modo di intendere la recitazione, l’attore ha risposto «Nelle parti che ho interpretato c’è sempre qualcosa di me. Bisogna trovare qualcosa di sè nella parte e poi svilupparla. L’arte della recitazione è tutta qui». Non è ciò che si dice una definizione profonda, ma mostra una chiarezza, una consapevolezza ed un senso di professionalità che lo hanno reso uno dei più convincenti attori viventi.

Il Cinema come funambolo

Il Cinema come funambolo

Il dibattito apertosi a seguito dell’uscita di Avatar ha portato ad interessanti riflessioni di carattere più generale, due delle quali provo qui a sintetizzare.

E’ sufficiente farsi portatori di nuove tecnologie per realizzare un film che abbia un valore artistico intrinseco? Secondo me, no. Basti pensare a pellicole come Il Cantante di Jazz del 1927 o La Tunica del 1953, rispettivamente il primo film sonoro e il primo film in Cinemascope della storia, che oggi sono ricordati soltanto per il dato statistico di essere arrivati per primi. Eppure furono pellicole accolte da enorme clamore e da un notevolissimo successo di pubblico. La prima salvò da sola la Warner Brothers dal fallimento. Tuttavia oggi non trovano neppure una collocazione nella classifica dei 100 film americani più importanti di sempre, stilata dall’American Film Institute, la più prestigiosa organizzazione statunitense ad occuparsi di Storia del Cinema. Il film cosiddetto commerciale o mainstream, destinato al più vasto pubblico possibile, deve poggiare necessariamente su sceneggiature banali e personaggi stereotipati? Ancora una volta la risposta è no. Anche in questo caso vi è più di un esempio da portare a sostegno. Pellicole infatti come Blade Runner, Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, Matrix, la saga de Il Signore degli Anelli, sposano commercialità ad approfondimento, quand’anche non autorialità. Sono lavori in cui la trama non si limita ad essere semplice corollario alle immagini, ma determina in modo non convenzionale lo sviluppo della vicenda.

Allora se è vero, come dice Ennio Flaiano, che «il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile», mi piacerebbe che tale movimento fosse come quello di un funambolo. In equilibrio fra contenuto e forma, e fra parole ed immagine.

Avatar

Avatar

«Né gli effetti speciali né il 3D né, in futuro, l’ologramma che ti riaccompagnerà a casa in macchina dopo il film, riescono a rimediare a questo piccolo grande vizio del cinema popolare americano: dopo trenta secondi hai già capito chi è il buono, chi è il cattivo e chi si innamorerà di chi. E Avatar non fa eccezione. Detto questo, il film è un magnifico polpettone ecologista e anti imperialista, magari un po’ frastornante per quelli delle generazioni arcaiche: due ore e tre quarti di 3D, con i visori calati sul naso, mi hanno prodotto una qual certa emicrania, con sussulti di nausea. E la sequenza bellica finale, mezz’ora buona di botti, luminarie, collisioni, inseguimenti, è decisamente troppo play-station per uno che preferisce il calcio Balilla. […] Avatar ti seduce a strati, a gragnuole, a bordate, come se ormai la meraviglia si dovesse e si potesse raggiungere solamente per accumulo, per quantità stordenti, e mai per sottrazione, per concentrazione, per intuizione»

Condivido le parole di Michele Serra sul nuovo attesissimo film di James Cameron. Avatar è una mirabolante esperienza visuale, che segna un nuovo corso per l’industria degli effetti speciali, mai così travolgenti, in una inedita combinazione di computer grafica, riprese digitali in 3D e tecnica performance-capture. Purtroppo però le note di merito iniziano e finiscono con l’aspetto tecnologico, sotto il cui peso si piegano caratterizzazione dei personaggi e storia. Così gli attori vanno a confondersi con la scenografia e  la trama diventa un corollario, qualcosa utile unicamente a giustificare il prodigio visionario che tracima dallo schermo. Ed anche se è vero che ad un film del genere non si può certo domandare delle sfumature introspettive o un intreccio particolarmente raffinato, resta comunque il dispiacere di constatare come i 15 anni di lavoro sul progetto non siano bastati a realizzare una sceneggiatura che non fosse così infarcita di stereotipi e luoghi comuni, e i cui messaggi di ecologia e pacifismo non venissero trattati con tale grana grossa. Del resto nelle pellicole del regista di Terminator e Titanic il bene e il male sono da sempre concetti tagliati con l’accetta, assolutamente privi di quel chiaroscuro che servirebbe a fornirgli spessore. La storia attinge a piene mani ai classici del passato, andando da Soldato Blu a Balla coi Lupi, da Apocalypse Now a Pocahontas, da Guerre Stellari Il Signore degli Anelli. Persino la principale sottotraccia, ossia quella degli occhi, del guardare inteso come metafora del cinema stesso, è quanto di più abusato vi sia. Basti pensare, per fare solo un esempio, al film che dà il titolo al mio blog. Peccato però che Cameron non sia Hitchcock, e che il suo film sbalordisca senza realmente emozionare.
Dieci anni al Cinema

Dieci anni al Cinema

In occasione della fine del primo decennio del secolo, i magazine italiani ed internazionali si stanno prodigando in classifiche di vario genere. Poteva il mio blog esimersi dal partecipare a questo momento di verifiche e bilanci? Certamente si, ma siccome ho a cuore la soddisfazione del mio sparutissimo drappello di fidi lettori, eccomi qua a pubblicare una personale “top ten” dei film usciti fra il 2000 e il 2009. Oltre alle pellicole ai primi 10 posti che elenco più in basso, voglio assegnare una particolare nota di merito a Il Pianista di Roman Polanski, ai due film di Tullio Giordana: I Cento Passi e La Meglio Gioventù, a The Others di Alejandro Amenabar, a La 25ª ora di Spike Lee, a tutto il lavoro di Clint Eastwood che in questi ultimi 10 anni si è costantemente mantenuto su livelli di eccellenza, a Christopher Nolan che si è affermato come uno dei maggiori talenti della “nuova” generazione di registi, a Paolo Sorrentino, il più originale e bravo cineasta italiano, ed infine alla Pixar che ha davvero rivoluzionato il mondo dell’animazione, realizzando alcuni nuovi classici senza tempo.

Ecco quindi i miei magnifici 10… ed i vostri?

Buon Natale, George Bailey

Buon Natale, George Bailey

«Help me Clarence, please… please! I want to live again! I want to live again! I want to live again… please God, let me live again!». Clarence è un angelo di seconda classe, un essere semplice dalla fede pura come quella di un bimbo. E’ a lui, di turno la sera di Natale, che viene affidato il caso di George Bailey, un uomo che ha dedicato la propria vita agli altri e che ora, sull’orlo dell fallimento, ha deciso di suicidarsi. Se Clarence riuscirà ad aiutarlo, potrà finalmente avere le ali che attende da 200 anni. Così, quando George decide di gettarsi nelle acque gelide di un fiume, è Clarence ad intervenire e salvarlo, e poi, per dissuaderlo dalla convinzione che sarebbe stato meglio non essere mai nato, gli mostra come sarebbe stato il mondo senza di lui: una dimensione parallela che evidenzia i fitti intrecci di un sistema in cui ogni vita tocca e condiziona centinaia di altre esistenze, fino a consentirne la stessa sopravvivenza: «La vita di un uomo è legata a tante altre vite e quando quest’uomo non esiste lascia un vuoto» gli spiega l’angelo. In quella notte George sceglie di vivere, nonostante tutto. Torna alla sua famiglia in tempo per scoprire che la solidarietà della sua piccola cittadina lo ha salvato dalla bancarotta. A Natale George prende coscienza del significato della parola “destino” ed il destino concede sempre una rivincita a chi ha il coraggio di lottare. Il suo altruismo spontaneo ha fatto sì che, nel momento di maggiore difficoltà, qualcuno si sia ricordato altrettanto spontaneamente di lui. Infatti, come gli rammenta Clarence nel finale del film, «Nessun uomo è un fallito, se ha degli amici».

La vita è meravigliosa è un mito intramontabile che ha saputo rendersi sempre attuale. Una favola agrodolce che stringe alla gola con il più lungo nodo di commozione che il cinema ricordi. Il senso profondo dell’esistenza è racchiuso in questo film che non ha vinto l’Oscar, ma il premio più ambito per un regista che vuole raccontare la sua visione della vita: il successo di pubblico che supera le barriere del tempo. Prevale su tutto la prova maestosa dell’indimenticabile James Stewart che riveste il suo personaggio di chiaroscuri adeguati all’evolversi della figura complessa di un uomo che sa passare da momenti di grande slancio gioioso, al pessimismo più tragico, al dolore acutissimo per la sorte dei suoi cari. Di lui il regista Frank Capra disse: «Il protagonista non avrebbe potuto essere altri che James Stewart, l’unico capace di rendere con naturalezza e credibilità lo stato d’animo di un uomo sull’orlo del suicidio, ma ancora disposto a spendere un soldo di speranza».

 

Chi ben comincia

Chi ben comincia

Mi piacciono gli inizi. Quando tutto è ancora possibile. Quando la destinazione non è ancora precisa. Mi piace quando si immagina, ma non si sa. Per dirla con Italo Calvino, mi piacciono le attese ancora senza oggetto.

Cinematograficamente parlando, mi piacciono gli incipit. Mi piacciono i titoli di testa. Quel momento in cui la storia sta per essere dispiegata e lo spettatore inizia con l’assaggiare alcuni elementi portanti del film: non solo il cast, ma anche lo stile, il ritmo ed il clima delle sequenze che seguiranno. Nascono dai cartelli del cinema muto, e – nel tempo – da semplice materiale didascalico per fornire indicazioni su produttori, autori ed interpreti della pellicola, sono diventati sempre più elemento espressivo [quand’anche non artistico] a sé stante, vero e proprio ritratto simbolico del film. Questo passaggio avviene pienamente negli Anni 60, con l’avvento della pop art, ossia della pratica “bassa” di fare arte e cultura. Il primo che porta i titoli di testa ad assumere una dimensione propria è Saul Bass, geniale inventore di un design minimalista, ma al tempo stesso altamente evocativo, capace di dire tanto con poco. I suoi lavori più importanti e rivoluzionari sono stati con registi del calibro di Otto Preminger, Alfred Hitchcock, Billy Wilder e Martin Scorsese. Dopo di lui, fra i più bravi, si possono ricordare Maurice Binder, l’autore degli opening-title di James Bond, e – in tempi più recenti – Kyle Cooper, creatore dei credits di Se7en e Spiderman. Come ha affermato Saul Bass in una sua intervista: «Quello che penso su cosa posso fare con un titolo è di introdurre un umore, di sottolineare il cuore del film, di esprimere la storia in modo metaforico. Io vedo nel titolo un modo per indirizzare gli spettatori, così nel momento in cui il film inizia, dovrebbero avere già una risonanza emotiva di ciò che stanno per vedere».

There’s no place like home

There’s no place like home

Ci risiamo. Anche quest’anno non ci stiamo facendo mancare la nostra dose intramuscolare di Lost. Il serial di  J.J. Abrams  ha assunto per noi una funzione prettamente curativa. Simona ed io siamo pazienti ormai cronici e gravi, che non rispondono a nessun altro trattamento a base di morfina o di altri narcotici affini. Soltanto i giovamenti terapeutici prodotti dalla visione delle vicende dei naufraghi più famosi della televisione ci consentono di ottenere una significativa attenuazione della sintomatologia, di cui siamo preda da circa tre anni a questa parte.
 
Ieri abbiamo iniziato ad iniettarci il primo episodio della quinta serie, non senza un breve ripasso della precedente, che avanza adrelinicamente fino all’intensissimo climax del ritorno a casa di alcuni dei protagonisti. Un’emozionante slow motion in cui Jack e cinque compagni mettono finalmente piede sulla terra ferma e baciano commossi i loro cari in attesa, mentre Kate, sola, stringe al petto il figlio di Claire. Il pathos della scena viene amplificato dallo straziante tema musicale di Michael Giacchino, straordinario autore della colonna sonora del serial ed anche delle musiche di alcuni film Pixar, considerato il più grande giovane talento fra i compositori per il cinema e la televisione.  Interessante ciò che dice in una recente intervista a proposito del suo importante lavoro in Lost «I miei genitori mi mettevano a letto, ed io dalla mia camera potevo udire le colonne sonore dei telefilm che loro guardavano in salotto. Mi divertivo molto a cercare di indovinare che telefilm stessero seguendo, sfruttando la sola musica come riferimento: e così, ho scoperto che i telefilm migliori erano quelli per i quali era più facile indovinare, quelli dotati di uno stile sonoro inconfondibile. Ho voluto far sì che anche Lost diventasse come quei telefilm che ascoltavo durante l’infanzia»There’s no place like home, così si chiama il motivo in questione, travolge fin quasi alle lacrime, perchè ognuno di noi, pur non essendo naufragato su un isola misteriosa, può – talvolta – sentirsi come di ritorno da un lunghissimo, estenuante, terribile viaggio, bisognoso soltanto della salvifica intimità della propria casa.