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Categoria: musica

There’s no place like home

There’s no place like home

Ci risiamo. Anche quest’anno non ci stiamo facendo mancare la nostra dose intramuscolare di Lost. Il serial di  J.J. Abrams  ha assunto per noi una funzione prettamente curativa. Simona ed io siamo pazienti ormai cronici e gravi, che non rispondono a nessun altro trattamento a base di morfina o di altri narcotici affini. Soltanto i giovamenti terapeutici prodotti dalla visione delle vicende dei naufraghi più famosi della televisione ci consentono di ottenere una significativa attenuazione della sintomatologia, di cui siamo preda da circa tre anni a questa parte.
 
Ieri abbiamo iniziato ad iniettarci il primo episodio della quinta serie, non senza un breve ripasso della precedente, che avanza adrelinicamente fino all’intensissimo climax del ritorno a casa di alcuni dei protagonisti. Un’emozionante slow motion in cui Jack e cinque compagni mettono finalmente piede sulla terra ferma e baciano commossi i loro cari in attesa, mentre Kate, sola, stringe al petto il figlio di Claire. Il pathos della scena viene amplificato dallo straziante tema musicale di Michael Giacchino, straordinario autore della colonna sonora del serial ed anche delle musiche di alcuni film Pixar, considerato il più grande giovane talento fra i compositori per il cinema e la televisione.  Interessante ciò che dice in una recente intervista a proposito del suo importante lavoro in Lost «I miei genitori mi mettevano a letto, ed io dalla mia camera potevo udire le colonne sonore dei telefilm che loro guardavano in salotto. Mi divertivo molto a cercare di indovinare che telefilm stessero seguendo, sfruttando la sola musica come riferimento: e così, ho scoperto che i telefilm migliori erano quelli per i quali era più facile indovinare, quelli dotati di uno stile sonoro inconfondibile. Ho voluto far sì che anche Lost diventasse come quei telefilm che ascoltavo durante l’infanzia»There’s no place like home, così si chiama il motivo in questione, travolge fin quasi alle lacrime, perchè ognuno di noi, pur non essendo naufragato su un isola misteriosa, può – talvolta – sentirsi come di ritorno da un lunghissimo, estenuante, terribile viaggio, bisognoso soltanto della salvifica intimità della propria casa.
La musica è ancora ribelle?

La musica è ancora ribelle?

La musica italiana d’autore ha da lungo tempo perso quell’impegno politico che l’aveva contraddistinta durante gli Anni Settanta, quando diventò espressione della controcultura giovanile, figlia di quella forte politicizzazione, avvenuta a seguito delle lotte operaie e studentesche della fine degli Anni ’60. I cantautori nati artisticamente in quegli anni personalizzarono il proprio impegno, ognuno a suo modo: De Andrè cantando di figure umili, emarginate e borderline. De Gregori usando una chiave ermetica ed assai poetica. Guccini proponendo la disillusione di storie di [stra]ordinaria quotidianità. Rino Gaetano giocando sulle corde del sarcasmo e del grottesco. Venditti fondendo denuncia sociale e cuore. Questi autori ed altri ancora furono protagonisti di un periodo di estrema creatività ed irripetuta qualità, in cui la musica diventò il simbolo più pieno di una generazione in fermento, fortemente coinvolta dalla politica.

Oggi, Franco Battiato, in verità non nuovo a pezzi di ferma denuncia, riporta la musica italiana ad una dimensione più sociale, facendosi interprete della disillusione che una larga fetta del Paese vive nei confronti della politica. Inneres auge [l’occhio interiore, in tedesco] è un brano colmo di profonda indignazione e fortissimo disagio, in cui il geniale artista siciliano si esprime in modo furente ed alquanto esplicito: «Come un branco di lupi affamati che scende dagli altipiani ululando, o uno sciame di api accanite divoratrici di petali odoranti, precipitano come massi da altissimi monti in rovina. Uno dice: che male c’è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare Primari e Servitori dello Stato? Non ci siamo capiti, e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?». Mi auguro sia il primo segnale di un ritrovato coraggio a schierarsi. Anche se è vero che «con le canzoni non si fan le rivoluzioni», come cantava Guccini, forse si può contribuire a svegliare qualche coscienza. Sarebbe già un ottimo risultato.

Preferisco vivere nel mio appartamento

Preferisco vivere nel mio appartamento

Circa un quarto di secolo fa, terminavo i miei anni teen cercando invano di scollare il mio naso dallo schermo televisivo ogni qualvolta Farrah Fawcett entrava in scena in un episodio delle Charlie’s Angels, oppure provando ad abbozzare, con ancor meno successo, una delle più semplici mosse di danza di Michael Jackson, mentre sul piatto del mio stereo Thriller girava senza soluzione di continuità. Non esistevano i DVD, le serie televisive non si potevano scaricare dalla Rete [a dirla tutta non c’era neppure la Rete] e le canzoni erano ancora qualcosa di “fisico”, inciso in una musicassetta o su un disco di vinile. I cellulari erano soltanto dei furgoni in dotazione alla Polizia Penitenziaria per il trasporto dei detenuti, e se in automobile ci si perdeva, tutto quel che si poteva fare era chiedere informazioni ad un passante o dispiegare una cartina formato lenzuolo. La malattia e la morte erano concetti non così definiti, e si aveva la sensazione che le cose non dovessero mai conoscere una fine reale.
 
Capita poi, per quei bizzarri scherzi del destino, che, lo stesso giorno, 25 anni dopo, due icone di allora perdano la vita. E così [non per la prima volta in verità, per quanto mi riguarda] si comprende che il tempo scorre volgare ed inesorabile, e non fa sconti a nessuno, divi compresi. E’ vero, potremo ascoltare la musica di Michael Jackson per sempre, così come ancora non ci siamo stancati di assaporare i film di Marilyn o le canzoni di Presley, ma non è esattamente la stessa cosa. Perchè penso che tutto sommato abbia ragione Woody Allen quando dice «Non voglio raggiungere l’immortalità attraverso le mie opere, voglio raggiungerla vivendo per sempre. Non mi interessa vivere nel cuore della gente, preferisco vivere nel mio appartamento».
 
Come Peter Pan

Come Peter Pan

Il 29 maggio 1988 andai a vederlo allo Stadio Comunale di Torino. Lo spettacolo fu grandioso, in pieno stile hollywoodiano, e lui si dimostrò un performer formidabile. Allora Michael Jackson era all’apice della notorietà. La sua carriera solista, iniziata 9 anni prima, vedeva all’attivo due album straordinari come Off the wall e Thriller, in cui, grazie alla collaborazione col grande Quincy Jones, era riuscito con abilità a mescolare pop, rock e musica nera. Forse lo stesso tipo di operazione che aveva iniziato a fare sul suo volto. Una serie di interventi di chirurgia estetica, alla cui origine c’era uno spaventoso desiderio di essere amato da tutti, senza distinzione di razza o sesso: crossover, esattamente come la sua musica. 
 
Privato dell’infanzia da un padre violento e dalla fama [insieme ai fratelli maggiori, era un divo già all’età di 5 anni], dopo gli Anni 80 l’uomo si perse definitivamente, sempre più preda dei suoi fantasmi personali. Il suo talento si sprecò in una stanca ripetizione di formule e clichè, del tutto sprovvisto di quella scanzonata ironia che aveva caratterizzato i suoi primi lavori e che era evidentissima nei videoclip di Thriller e Say Say Say [quest’ultima cantata insieme a Paul McCartney]. I suoi dischi divennero irritanti autocelebrazioni e le cronache cominciarono ad occuparsi di lui per altri motivi, oltre quelli più strettamente artistici.
 
E’ volato via ieri come Peter Pan. Come ha sempre voluto, Michael Jackson non sarà mai adulto, nè vecchio.

30 anni fa in musica

30 anni fa in musica

Il 1979 è un anno di grande fermento ed innovazione nel campo musicale. Un anno che fa da spartiacque fra il tipico seventies sound e la new wave degli Anni 80. Sicuramente, se si esaminano le vendite nei primi mesi dell’anno, la disco è ancora in auge, anche se spesso virata su nuove sonorità come in Hot Stuff di Donna Summer o come in Rapper’s Delight dei Sugarhill Gang che segna la nascita embrionale dell’ hip hop, la nuova musica nera che negli anni a venire governerà le classifiche di mezzo mondo. Con un impianto più tradizionalmente da discoteca si presentano invece i due smashing hit I Will Survive di Gloria Gaynor e We are family delle Sister Sledge. Sempre nello stesso anno la scena underground newyorkese diventa famosa su scala internazionale, specie con gruppi come i Talking Heads e come i Blondie con il loro clamoroso successo Heart of Glass. Tra gli artisti più popolari del 1979 vi sono, oltre ai già citati, i Bee Gees, gli Chich, Rod Stewart, i Police, i Pink Floyd, i Supertramp. Esplodono i Knack di My Sharona che qualche critico paragona ai Beatles, salvo però cambiare repentinamente idea quando, solo un anno dopo, nessuno si ricorderà più della band.
La banda dei cuori solitari di Vinicio Capossela

La banda dei cuori solitari di Vinicio Capossela


Tutto si può dire tranne che il “Da Solo Show” di Vinicio Capossela sia uno spettacolo solitario, visto la formidabile band di “strumenti inconsistenti” che supporta il cantautore ed il pubblico che ogni sera continua a rispondere numeroso e calorosissimo! Definirlo un concerto è assolutamente riduttivo. Ciò a cui abbiamo assistito ieri sera al Carlo Felice di Genova è uno zibaldone in forma di varietà, affollato da tanti personaggi prelevati di peso dai baracconi delle stranezze che ad inizio del secolo scorso affiancavano il Circo Barnum. Ed ecco quindi maghi illusionisti, saltimbanchi, giganti e donne mangiafuoco, l’uomo dalla faccia deturpata dalle storie, il polpo palombaro, la medusa nervosa, il minotauro, il maiale dalle due teste che «mangia per due ma rende la stessa quantità di prosciutto. Lo spettacolo è uguale, ha due teste quindi scusate le spalle e scusate la faccia».

La prima parte dello show racchiude le canzoni dell’ultimo splendido e celebrato disco, l’unico disco italiano che la famosa rivista britannica Mojo inserisce fra i migliori dieci dell’anno scorso. E’ la parte più intimista e raccolta, che inizia con Il gigante e il mago e si snoda attraverso la poesia e la magia di canzoni come In clandestinità, Parla piano e Orfani ora fino ad approdare alla struggente metafora de Il paradiso dei calzini, eseguita con un pianoforte giocattolo non più alto di 20 centimetri. Dopo l’intervallo, comincia una seconda parte in cui la scaletta pesca invece dai precedenti lavori. L’atmosfera si fa più calda, sul palco fa il suo ingresso una gabbia illuminata, i musicisti, le cui divise ricordano in parte quelle di Sergent Pepper, incantano con grancasse, tromboni, vibrafoni, banjo e clarinetti e Vinicio trascina un pubblico sempre più festoso ai piedi del palco. Esegue Marajà con una maschera scimmiesca, Canzone a manovella in abito da pesce e Che cos’è l’Amor vestito da cantante country. Per L’uomo vivo il mago viene impacchetato in una camicia di forza ed appeso a testa in giù, fino a quando, secondo la migliore tradizione di Houdini, riesce a liberarsi. In un attimo il teatro è tutto in piedi e vi rimane sino alla fine dello show, ballando, cantando e battendo le mani a tempo, sotto diluvi di coriandoli.
C’è spazio anche per diversi pensieri  su Genova, «una città in cui ti senti imbarcato, anche se rimani a terra» e per una personale versione de La citta vecchia di De Andrè. Capossela, che dà fondo al suo genio fantastico e visionario, sa intrattenere con intelligenza ed ironia: «se non proprio l’autostima, che di questi tempi è un lusso, coltiviamo almeno un pò di autosolidarietà». Per due e ore e mezza il suo varietà ci ha emozionato, avvinto ed esaltato e, cosa più importante di tutte, è riuscito a condurci in un luogo dove si è tornati bambini a sgranare gli occhi «dentro una sfera di meraviglia».

 

  

Pensosamente leggero

Pensosamente leggero

Diciamolo subito: Pacifico è il miglior autore italiano di musica pop. E lo è da 8 anni a questa parte, ovvero sia da quando uscì il primo dei suoi 4 dischi. Ognuno dei lavori del cantautore milanese è ricolmo di piccoli capolavori. Gemme minimaliste che riescono a trascinare chi ascolta dentro una nuvola di emozioni, suggestioni e ricordi. Pacifico sa evocare, partendo da dettagliate fotografie che affondano nel quotidiano, nella vita di ciascuno, dentro ogni casa, trovando la bellezza e l’intensità nella semplicità. Ed è proprio Dentro ogni casa il titolo del suo nuovo album, pubblicato un mese fa. Un disco avvolgente in cui i duetti con Gianna Nannini e Malika Ayane esaltano la raffinatezza delle sonorità e dei testi del Nostro. Canzoni che si aggirano nel labirinto dei sentimenti, e che sanno scavare nell’intimità meno protetta e quindi più innocente ed autentica. Quella di Pacifico è musica pensosamente leggera, mai frivola, in equilibrio tra strumenti acustici e tappeti elettronici, frutto di ragionamenti ed istintivo talento. Musica piacevole che si presta ad un ascolto d’intrattenimento, ma allo stesso tempo profonda, senza mai essere compiaciutà nè tantomeno pesante.

Lo scorso mese ho avuto la fortuna di assistere ad uno show case che il cantante ha tenuto alla Fnac di Genova e ho scoperto oltre all’Artista sensibile e delicato, anche un uomo simpaticissimo e brillante. Alla fine del mini concerto si è intrattenuto con i fan e ha scambiato qualche battuta anche con me e Simona. Pochi minuti, ma sufficienti per apprezzarne la genuina naturalezza, tipica di chi fa della propria creatività ed espressività un momento di verità.