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Categoria: cinema

Basta che funzioni

Basta che funzioni

Ho sempre ritenuto che una profonda sensibilità personale non possa essere disgiunta da un malessere sottile, da un’ indefinita inquietudine, o – per intenderci – da ciò che molti chiamano mal di vivere: «Si vive una sola volta, e qualcuno, a ben vedere, neppure una». Per questo motivo amo Woody Allen. Perchè come mai nessun altro è riuscito a dare a questi temi una riconosciuta cittadinanza cinematografica, declinandoli – e qui sta il genio – su un piano di indulgente, ma al tempo stesso dissacrante umorismo: «Il cibo in questo posto è veramente terribile. Inoltre le porzioni sono scarse. Beh, questo e’ essenzialmente quello che io provo nei riguardi della vita: piena di solitudine e squallore, di guai, di dolori, di infelicità… e oltretutto dura troppo poco».
 
Con Basta Che Funzioni Woody Allen riporta il suo cinema a New York, e – riadattata una sceneggiatura scritta quasi 40 anni fa per il grande Zero Mostel – colloca di nuovo al centro della scena il proprio “pessimismo cosmico“, realizzando una delle sue commedie più intelligenti e brillanti. Sollevato dal fatto di non essere il protagonista, il regista 73enne può spingersi ancora più in là di quanto fatto in passato nel delineare il suo antieroe tipo, caricandolo anche di dosi inedite di cinismo e misantropia. Caustico ed antipatico al punto giusto, Larry David convince nella parte di un fisico giunto quasi alle soglie del Nobel, che dopo un matrimonio trentennale finito male ed un suicido fallito, lascia la comoda professione di accademico per insegnare scacchi a dei bambini che non si fa alcun scrupolo di maltrattare senza pietà. Ritmo serratissimo, dialoghi smaglianti e tempi comici perfetti danno un mordente particolare alla storia, per quanto questa non sia altro che una sorta di collage di precedenti opere del regista. Ed è proprio ad una comicità tornata tranciante e corrosiva che Allen affida il compito di dimostrare come la vita sia del tutto priva di senso, nonostante l’umanità si affanni da sempre a trovarne uno.  Non è pertanto casuale che il protagonista, sia all’inizio che alla fine del film, si rivolga direttamente al pubblico, smascherando da subito l’artificiosità della pellicola, la sua sciocca pretesa di concepire una rappresentazione assennata della realtà. Il mondo è governato unicamente dall’irrazionalità del fato. Tutto nasce per caso: gli incontri, gli amori, gli antagonismi, la ricchezza, la rovina, la felicità, ed è esattamente alla luce di questa consapevolezza che il finale del film si rivela solo in apparenza consolatorio: «Qualunque amore riusciate a dare o ad avere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare, qualunque temporanea elargizione di grazia, basta che funzioni».
Newman. Un segno che non morirà mai.

Newman. Un segno che non morirà mai.

Ogni qualvolta penso a Paul Newman, scomparso il 26 settembre di un anno fa, mi torna alla mente la scena finale di Butch Cassidy. Lui e Redford sono assediati dall’esercito boliviano. I nemici sono mille e loro soltanto in due. Hanno quasi finito le munizioni. Sono feriti. Non hanno via di scampo. Si guardano negli occhi e, senza aggiungere altro, si lanciano di getto fuori dalla casupola dov’erano asserragliati, sparando all’impazzata.

Il film termina proprio così, senza mostrare lo scempio dei loro corpi crivellati di proiettili. Su un fermo immagine che li sottrae alla morte, consentendo ad ognuno di noi di fantasticare una fine alternativa a quella che il destino aveva previsto. Una fine che va oltre la ragione, sospesa anch’essa dal “freeze frame”, per esprimersi piuttosto su un piano di emozione e cuore: una miracolosa vittoria nello scontro finale, con forse una fuga verso l’Australia alla ricerca di nuove avventure. Una fine quindi che, proprio perchè immaginaria ed immaginifica, li colloca di fatto dalle parti del mito. La stessa mitologia che si raffigura tutte le volte che rivediamo un film di Paul Newman, il quale – come tutti i più grandi attori – è un segno che non morirà mai. Trattenuto da un fermo immagine che lo imprime nella memoria collettiva. Oggi e per sempre.

I miei 500 sogni

I miei 500 sogni

“Noi siamo i fortunati che hanno a casa i sogni. I nostri padri, i nostri nonni li vedevano passare, per due ore nella loro vita. Quando la grande luce si accendeva e quella specie particolare di buio finiva, il sogno era volato via. Diventava un ricordo, una sensazione, un’emozione. I film erano solo quel fascio di luce nel nero della sala, erano imprendibili, immateriali, pura illusione. A noi la scienza ha regalato, forse per consolarci di meraviglie di vite perdute, la magnifica opportunità di tenere a casa dei sogni. Li puoi toccare, li puoi ordinare, li puoi richiamare in vita quando vuoi. Un potere da maghi, da stregoni, da spiriti superiori […]. Noi, i padroni dei sogni, abbiamo la possibilità fantastica di cercarli, quei luoghi speciali della nostra anima, quando ne abbiamo bisogno. Come una medicina, un conforto, un amico che torna da lontano.”[Walter Veltroni]

In occasione dell’acquisto del cinquecentesimo pezzo della mia collezione, voglio segnalare i 12 DVD che più mi sono piaciuti fra quelli comperati negli ultimi 12 mesi. Alcuni capolavori del passato si mescolano ad ottimi film più recenti. Se qualcuno dei miei intrepidi lettori non sapesse cosa vedere [o rivedere] stasera, può trovare ispirazione in questa foto.

E per evitare che vi spremiate le poche diottrie rimaste, ecco l’elenco scritto dei film: Gran Torino di Clint Eastwood, Gomorra di Matteo Garrone, Il Divo di Paolo Sorrentino, Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris, Oltre il Giardino di Hal Ashby, Vedovo Aitante Bisognoso Affetto Offresi Anche Babysitter di Jack Lemmon, Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, Nick Mano Fredda di Stuart Rosenberg, La Parola ai Giurati di Sidney Lumet, Una Vita Difficile di Dino Risi, Il Posto delle Fragole di Ingmar Bergman e L’Invasione degli Ultracorpi di Don Siegel.

Lunga vita e prosperità

Lunga vita e prosperità

La saga di Star Trek, nata in televisione nel 1966 dal genio di Gene Roddenberry, è stata tra le prime serie a produrre larghe comunità di fan e ad allargare la propria dimensione in modo transmediale, replicandosi in cartoni animati, fumetti, romanzi, giochi di ruolo e videogames, fino a sbarcare, dagli anni Ottanta, anche al cinema. Un panorama che ha finito poi per estendersi anche a successive serie televisive le cui avventure si sviluppavano a secoli di distanza e  con differenti personaggi rispetto alla serie classica del ’66-’69, che vedeva il Capitano Kirk, il Signor Spock e il Dottor McCoy guidare l’astronave Enterprise «ad esplorare strani mondi, a ricercare nuove forme di vita e nuove civiltà, e ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima».
 
Il film di J.J. Abrams, in programmazione in questi giorni, tenta – riuscendoci in pieno – una nuova fondazione narrativa, raccontando gli eventi che porteranno a formare per la prima volta lo storico equipaggio dell’Enterprise.  E lo fa dimostrando uno straordinario equilibrio, da una parte concedendo alla storia una giusta autonomia, di modo che il film possa vivere di vita propria, e dall’altra mantenendo comunque un legame diretto con l’universo seriale di appartenenza, che viene riletto secondo lo stile personale del regista creatore di Lost. Uno stile fatto di sequenze d’azione adrenaliniche, sensazionali effetti speciali, strutture ad incastro, cortocircuiti temporali, citazioni cinematografiche ed ironia. Non rinunciando neppure ad un pò di commozione, quando un invecchiato Leonard Nimoy [il Signor Spock della serie degli anni 60], alzando la mano con le dita divaricate a V saluta con la mitica formula «Lunga vita e prosperità».
C’era una volta Sergio Leone

C’era una volta Sergio Leone


Il 30 aprile di vent’anni fa moriva Sergio Leone, uno dei più geniali e raffinati autori del nostro cinema. Internazionalmente conosciuto per aver inventato il genere “spaghetti” western, e soprattutto per essere riuscito – da italiano – a rinnovare e quindi influenzare un genere tipicamente americano. Nel 1964 realizza il rivoluzionario Per un pugno di dollari, in cui emerge il suo stile personale fatto di tempi ed immagini dilatate, capace di infondere una dimensione epica e mitica al racconto cinematografico. Celebri in particolare i suoi lunghi primi piani che indagano i sentimenti dei protagonisti, e le straordinarie colonne sonore di Ennio Morricone. Un marchio di fabbrica presente nei successivi Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo che completano la cosidetta trilogia del dollaro. Con C’era una volta il west e Giù la testa lo sguardo del regista si fa ancora più celebrativo. Il primo in particolare è considerato il suo più grande western: un sincero e malinconico omaggio al mondo della frontiera, in cui il Leone accentua la sua visione contemplativa. Dopo una gestazione di 15 anni, il regista romano chiuderà la trilogia del tempo e la sua breve carriera con il monumentale C’era una volta in America. Da crepuscolare e struggente affresco sulla malavita organizzata nella New Yorkdel proibizionismo fino agli anni 60, il film si sviluppa come metafora della vita e dell’amicizia, del tempo perduto, del peso della memoria, dell’imprescindibilità della violenza.


In una delle sue ultime interviste ebbe a dire: «’C’era una volta in America’ è un omaggio alla letteratura americana di Chandler, Hammett, Doss Passos, Hemingway, Fitzgerald. Personaggi che, quando li ho conosciuti, erano proibiti in Italia. Li ho letti in clandestinità ai tempi del fascismo, e come tutte le cose proibite hanno assunto un significato anche superiore alla loro importanza effettiva. In secondo luogo è la ricostruzione più compiuta di quell’America che ho inseguito e sognato per anni. L’America delle contraddizioni e del mito. Infine, è una riflessione sullo spettacolo, sull’arte visiva. Non a caso, il film inizia e finisce in un teatro d’ombre cinesi: il pubblico delle ombre cinesi sta alle ombre cinesi come il pubblico del film sta al film. C’è una simbiosi tra loro e noi. È un doppio schermo, anzi un pubblico che guarda un altro schermo.»

 

Lo sguardo di Stanley Kubrick

Lo sguardo di Stanley Kubrick


Dieci anni fa se ne andava Stanley Kubrick. Regista di culto, autore di visionari adattamenti letterari, è stato fra i cineasti più controversi, coraggiosi, creativi e sorprendenti. Un Artista che ha reinventato i generi e rivoluzionato le tecnologie e che ha saputo guardare alle cose del mondo in modo unico ed inconfondibile. Un Autore a tutto tondo in grado di controllare ogni aspetto del suo lavoro. Ci ha lasciato 13 film, alcuni dei quali considerati fra i massimi capolavori della storia del Cinema, contraddistinti, come lui stesso ebbe a dire, da «una riflessione riguardante l’uomo del Ventesimo secolo, gettato su una barca senza timoniere, in un mare sconosciuto.» Il suo è uno sguardo privo di speranza: le organizzazioni sociali, politiche e militari non sono altro che macchine che producono infelicità e distorsioni. Pare non esserci alcuna possibilità di redenzione per gli uomini, ma solo un affannarsi verso il raggiugimento di falsi obiettivi. Uno sguardo  sbarrato sul mondo, proprio come quello di Malcom McDowell in Arancia Meccanica. Oppure come quello che Charles Manson aveva quando fu arrestato dopo l’omicidio di Sharon Tate e che il regista suggerì come modello a Jack Nicholson per Shining.
 
Mi piace ricordare cosa disse di lui Steven Spielberg, suo amico ed estimatore: «La prima cosa che rende Kubrick speciale è il fatto che era un camaleonte: non ha mai fatto lo stesso film due volte, ogni singolo film è un genere diverso, un periodo diverso, una storia diversa, un rischio diverso. L’unica cosa che univa tutti i suoi film era l’incredibile maestria che aveva nella sua arte e nel montaggio, la recitazione e la posizione della cinepresa, ma ogni storia era diversa e ogni storia, in qualche modo, era così misteriosa nel modo in cui veniva narrata che ti manteneva curioso: “Come andrà a finire? Non riesco ad immaginare cosa succederà” e tutti i suoi film sono pieni di alti e bassi, di sorprese nella trama e sorprese nei personaggi che li devi vedere più di una volta perché desideri quella stessa sorpresa.»

 

 
Ed il mio Oscar va a…

Ed il mio Oscar va a…

E’ un inverno caldo, perlomeno al cinema. Sono molti i film interessanti da vedere ed io non mi sono certo fatto mancare nulla. In queste ultime settimane ho visto 4 delle 5 pellicole candidate agli Oscar di domenica prossima e posso dire che il mio personalissimo premio va a Il curioso caso di Benjamin Button con Brad Pitt e Cate Blanchett. L’ultimo lavoro di David Fincher sa coniugare con naturalezza fiaba e poesia, facendoti sgranare gli occhi per lo stupore e prorompere in oh di meraviglia. Il regista dispiega abilmente trucchi ed effetti speciali, sempre però al servizio di una visione calda e sentimentale, e mai tecnologica, nè tantomeno irrealistica. Stilisticamente superbo, il film narra le bizzarre vicende di un uomo che si trova a vivere il suo tempo al contrario [nasce vecchio e con gli anni ringiovanisce], e che per un breve ma intenso periodo riesce ad incrociare la donna della sua vita. Questa favola che commuove e travolge si presta a tante differenti considerazioni: il tema della diversità, l’importanza della forza di volontà, una riflessione sulla morte, la circolarità della vita, la ricerca della felicità, l’importanza di assaporare ogni momento, l’imprevedibilità, la fatalità del destino e, sopra tutto, l’unicità dell’amore, la sola cosa che dura e che è capace di sconfiggere persino il tempo.

In ordine le mie preferenze vanno poi a:

Milk di Gus Van Sant, un film notevole, che possiede il grande pregio di raccontare senza compiacimenti, nè tantomeno giudizi. Capace di emozionare ed analizzare al tempo stesso, è impreziosito da un’eccellente ricostruzione storica e dalla splendida ed intensa performance di Sean Penn, nel ruolo del primo uomo politico americano dichiaratamente gay. Convincenti tutti gli attori comprimari, aderenti appieno ai personaggi reali. Una pellicola straordinariamente attuale, se si considerano le cattive acque in cui tuttora navigano molti diritti civili, e che serve a ribadire – se mai ve ne fosse bisogno – il valore dell’impegno personale.

Ambientato come il film precedente negli anni 70, Frost/Nixon Il duello di Ron Howard, ha dalla sua la formidabile interpretazione di Frank Langella nei panni di Richard Nixon. La storia dell’intervista televisiva che il presidente americano diede tre anni dopo essersi dimesso, a seguito dello scandalo Watergate, è avvincente, però risente, in taluni passaggi, dell’impianto teatrale. Appare poi troppo insistito il parallelo con un match di boxe e troppo abusata la proposizione del classico schema scontro/sconfitta/seconda opportunità/vittoria.

The millionaire di Danny Boyle gode di un’ottima regia: montaggio serrato, inquadrature studiate, bella fotografia, grande cura nella scelta delle musiche. Però l’operazione di raccontare una storia d’amore nell’India attuale, prendendo le mosse da un quiz televisivo, si rivela piuttosto artificiosa. Lo sfondo di emarginazione e soprusi fra le baraccopoli di Mombay, e le vicende del bravo ragazzo che sfugge ad una vita destinata alla delinquenza e che con la propria tenacia riesce a diventare milionario, finiscono con l’apparire uno stereotipo. La tensione ne soffre e scema progressivamente con lo svolgimento del film, che via via presenta aspetti e situazioni sempre meno convincenti.

Il pensiero unico

Il pensiero unico

W.” è un film incolore, almeno quanto la figura di George Bush. Un presidente inadeguato, privo di ideali, se non quelli religiosi inculcategli da un pastore protestante. Ma non è della pellicola in sè che voglio parlare, quanto piuttosto del fatto che in Italia il film di Oliver Stone non abbia goduto di una regolare distribuzione in sala e che, di conseguenza, sia stato trasmesso direttamente in televisione, su La7, due settimane fa.
 
Già lo scorso ottobre vi erano state delle polemiche quando la Festa del Cinema di Roma aveva deciso di non programmare “W.” I responsabili della produzione avevano allora affermato:  «Eravamo in trattativa con la manifestazione di Roma, ma la cosa è stata un po’ strana perchè a un certo punto gli organizzatori ci hanno detto che il Primo Ministro italiano, Silvio Berlusconi, è un gran sostenitore del Presidente Bush e quindi non avrebbe gradito che un film come quello di Stone aprisse il festival». Il film è uscito nelle sale americane lo scorso ottobre, incassando un totale di circa 26 milioni di dollari. Certo non un incasso eccezionale, ma sicuramente dignitoso, in grado di rassicurare i distributori italiani, specie se si considera che sul nostro territorio sono stati fatti circolare film che alla prova dei botteghini americani si erano comportati molto peggio, e che Oliver Stone è comunque un regista che anche da noi ha uno zoccolo duro di estimatori. Visto che i maggiori distributori italiani sono Medusa [di proprietà di berlusconi] e 01 Distribution [controllata dalla Rai, che è controllata dal primo ministro] la questione diventa sempre più evidente.
 
Amareggia constatare che anche in questo caso nel nostro Paese diventa sempre più difficile star fuori dal coro, sia che si tratti di registi, di giornalisti televisivi o della carta stampata, di avversari politici o quant’altro. Impossibile criticare. I panni sporchi si lavino in casa o, meglio ancora, si mantengano sporchi. Chi esprime idee o porta avanti azioni non aderenti ad una sorta di “pensiero unico” viene discreditato, attaccato e, quando si riesce, allontanato.