Il figliol prodigo

Il figliol prodigo

Renzi che oggi chiede un’alleanza con la Sinistra fornisce tutta una nuova serie di significati alle parole spregiudicatezza ed ipocrisia. Dopo aver trascorso tutti suoi anni da Premier ed oltre ad insultare la Sinistra, dopo aver provato in ogni modo possibile ed immaginabile a far suo l’elettorato di destra, orfano di Berlusconi, dopo aver eliminato l’Art. 18, bandiera della Sinistra, dopo un fallimentare Jobs Act, dopo aver fatto naufragare il referendum sulle trivelle, dopo la clamorosa sconfitta del 4 dicembre 2016, dopo aver imposto l’Italicum a colpi di fiducia, dopo esser stato responsabile della più grande diaspora dal suo partito, dopo aver siglato il primo Nazareno ed aver poi paventato il secondo solo poche ore prima di questa straordinaria piroetta, oggi – quando la destra dimostra di sapersi ricompattare (e vincere) intorno all’asse Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, cancellando per sempre ogni residua speranza di costruire un Partito della Nazione – Renzi si accorge che esiste uno spazio alla sinistra di un PD “normalizzato” (utilizzando un eufemismo) con cui potrebbe – udite udite – persino pensare di allearsi in vista delle prossime elezioni politiche. Una mossa che ovviamente mira prima di ogni altra cosa a boicottare il processo di riunificazione della Sinistra, dividendo quel campo fra chi – giustamente – non intende far parte di un’allenza a trazione renzista e chi, invece, potrebbe esser più possibilista secondo però certe condizioni.

Insomma: al Renzi figliol prodigo non crede nessuno e soprattutto nessuno vuole l’ex Presidente del Consiglio a guida di questa eventuale coalizione. Renzi è come un animale ferito che “vede” la prossima sconfitta elettorale, l’ennesima, la definitiva, e cerca di uscire da un angolo sempre più angusto in cui si è però infilato da solo con una serie di decisioni via via più invise alla pubblica opinione. Il segretario del PD che oggi punta ad un partito «aperto e plurale», dopo che per anni ha lavorato all’esatto contrario, è la plastica rappresentazione dei mille nodi venuti al pettine a seguito di una leadership scellerata.

Stupratori a casa loro

Stupratori a casa loro

Le affermazioni di Debora Serracchiani sul fatto che uno stupro perpetrato da un profugo sia da considerarsi più schifoso di quello di un italiano, perchè oltre ad usare violenza nei confronti di una donna romperebbe il patto di accoglienza in essere col Paese che lo ha ospitato, la dicono lunga su cosa sia diventato il partito di Renzi. Questi democratici in crisi di consenso hanno talmente paura di lasciare agli avversari politici la connessione col “comune sentire” del Paese che si stanno producendo in una serie di dichiarazioni o – ancor peggio – di legiferazioni tutte improntate a rincorrere l’onda emotiva del momento. Eccoli quindi dar fiato a cavalli di battaglia di facilissima presa come il daje all’immigrato, la sacrosanta revolverata notturna, l’Europa dei banchieri e dei tecnocrati e via così in un repertorio molto poco “illuminato” (ed illuminante) che certo starebbe molto meglio in bocca ad un Salvini o a un Gasparri, dimenticando purtroppo che il politico di razza non è colui che insegue l’elettorato, ma colui che lo guida.

Personalmente provo pena per un partito che in passato è stato il faro della Sinistra e che oggi, in mano ai renziani, è diventato uno strumento che – ben lungi dal perseguire l’obiettivo di migliorare le condizioni di un Paese, allo sbando sotto molti aspetti, non ultimo quello sociale e culturale – mira soltanto a mantenere le proprie posizioni di potere e di rendita. Meglio avrebbe fatto l’ex sindaco di Firenze, all’indomani della vittoria alle Europee, a farsi un partito tutto suo, come Macron in Francia. Lo avrebbero seguito in tanti ed avrebbe evitato di violentare (per tornare a bomba) una cultura politica che non gli appartiene ed i valori fondanti di un Partito che meriterebbe ben altra guida.

Democrazia dall’alto

Democrazia dall’alto

Tutti i sondaggi sulle intenzioni di voto (per quello che ancora valgono) indicano da qualche tempo il sorpasso del M5S sul PD. Gli ultimi mesi per il partito di Renzi sono stati segnati da una serie di errori più o meno grossolani: il referendum costituzionale, la scissione, la vicenda Consip, la questione Minzolini. A trarne giovamento sono stati i pentastellati, che – benchè protagonisti di vicende assai discutibili – continuano a godere di un crescente credito da parte dell’elettorato. Qualche giorno fa, a Genova, è andata in scena l’ennesima dimostrazione di come il movimento venga gestito in modo autoritario ed illiberale dal proprio leader, con buon pace della formuletta tanto strombazzata quanto menzognera dell’uno che vale uno. Il guru del vaffa ha annullato il voto on-line delle comunali del capoluogo ligure, ha tolto il simbolo alla vincitrice e ha quindi indetto una seconda votazione che ha promosso con circa 16.000 preferenze un candidato a lui gradito.

Per giustificare la sua decisione Grillo ha chiesto un atto di fede nei suoi confronti, intimando a chi non fosse d’accordo di andarsene  e di fondare un nuovo partito. Sta tutto qui il senso di una forza politica che si configura molto più come una setta piuttosto che un partito. Una sorta di confraternita che, dietro il paravento di una propaganda mediatica tutta giocata su parole chiave come “democrazia dal basso” o “approccio partecipativo”, nasconde in realtà una gestione  cesaristica e dittatoriale che non prevede, nè tantomeno tollera, alcuna digressione rispetto al pensiero unico del capo. Il cosiddetto “garante” (straordinario eufemismo) infatti fa e disfà con grande disinvoltura e senza alcun sostanziale dibattito interno, e – cosa ancor più preoccupante – effettiva censura da parte del proprio elettorato. Se questa è l’idea del confronto democratico che deve regolare una comunità di persone, cosa ci aspetterà una volta che il Movimento dovesse conquistare il mandato per governare il Paese?

La corsa del coniglio

La corsa del coniglio

Massimo Giannini su La Repubblica: «La responsabilità primaria pesa tutta sull’ex segretario. Toccava a lui, non da oggi, farsi carico di tenere unita quella “comunità di senso e di destino” che dovrebbe ma non è mai riuscito ad essere il Pd. Toccava a lui, anche solo per un giorno, mettere da parte le ragioni e i torti dei due schieramenti, e indicare una via d’uscita condivisa. E invece, ancora una volta, Renzi non è riuscito ad andare oltre se stesso. Non ha saputo o non ha voluto aprire spiragli, rimettendo in discussione la sua road map “da combattimento” e i suoi tre anni di governo. Ha riproposto il solito linguaggio conflittuale (dalla “sfida” ai “ricatti”) e il solito schema concorrenziale (“Se siete capaci, sconfiggetemi al congresso”). Soprattutto, non ha fugato l’atroce sospetto rivelato dal “fuorionda” di Delrio: “I renziani pensano che la scissione convenga, perché così diminuiscono le poltrone da distribuire…”. La vera posta in gioco può essere il potere, e non l’identità?». Così invece il direttore Mario Calabresi: «Un compromesso alto è possibile se i contendenti faranno un passo indietro. In questo senso la prima responsabilità dovrebbe averla Matteo Renzi. Spetta prima di tutto a lui il compito di tenere unito il suo partito, lui deve farsi carico delle esigenze di un grande movimento in cui devono coesistere sensibilità diverse. È lui che deve avere l’elasticità di rappresentare le diverse culture presenti nel Pd. È il segretario del partito che ha l’onere di trovare in prima istanza una soluzione che rimetta i democratici in condizione di essere vincenti e un punto di riferimento culturale e sociale per il Paese».

Entrambi gli articoli continuano addossando alla minoranza dem una parte di responsabilità su quanto sta succedendo. E’ evidente che quando si giunge ad una separazione la colpa non è mai tutta di una sola parte, ma è altrettanto evidente che Renzi sia stato il peggior segretario che il PD potesse mai avere. Dopo aver dilaniato il Paese sul tema della Costituzione, la sua leadership – da sempre contraddistinta da un sistematico disprezzo per il dissenso interno e da una particolare passione per le ambizioni personali piuttosto che per gli interessi della propria comunità – divide oggi il partito.  Oltre che divisivo però il segretario è andato gradualmente definendosi anche come un gigantesco equivoco ed uno straordinario bluff. Un equivoco perchè si è pensato che anche il PD, così come FI o il M5S,  avesse bisogno per vincere di un capo che seguisse la logica cesarista e del pensiero unico, che fosse prima di tutto seduttore televisivo, con la battuta pronta e lo slogan populista facile. Dimenticando però che il segretario di un partito che ha fatto del pluralismo il suo tratto distintivo deve prima di ogni altra cosa saper ascoltare, mediare e convincere, tutte qualità che Renzi non ha mai dimostrato di possedere. Un bluff perchè Renzi ha perso su tutti i fronti: non è riuscito ad accreditarsi presso l’elettorato di destra a cui ha sempre puntato, non è riuscito a svuotare il consenso dei Cinque Stelle, non è riuscito nel suo programma di riforme e, in ultimo, non è riuscito a tenere insieme il suo partito.  Aggredendo gli esponenti del PD critici verso la sua linea politica sempre lontana dalle istanze della Sinistra, molto più che i tradizionali avversari esterni, come Grillo, Salvini e Berlusconi, Renzi ha instaurato dentro il partito un clima di progressivo livore e  logoramento  che ha avuto come logica conseguenza quanto sta succedendo in questi giorni. Renzi sarà ricordato come l’uomo che ha stravolto la natura ed i valori fondanti del Partito Democratico, finendo per frantumarlo. Il dubbio, però, è che su quella macchina lanciata in corsa verso lo strapiombo non ci sia soltanto un partito politico, ma tutta l’Italia.

Il Sistema che si finge Antisistema

Il Sistema che si finge Antisistema

Tutti a gridare al voto. Ma perchè, verrebbe da domandarsi. Se è più logico che forze come Lega o M5s siano le più agguerrite nel richiedere che si torni al più presto alle urne, per capitalizzare il successo referendario di dicembre, non è altrettanto lecito che lo faccia il PD. Mentre le prime – infatti – sono forze all’opposizione che da sempre giocano allo sfascio, quest’ultimo resta il partito che esprime il Presidente del Consiglio e la cui maggioranza parlamentare sorregge tuttora il Governo. La compagine dell’esecutivo è rimasta nella sostanza inalterata, rispetto alla precedente, l’unico elemento che è mutato è il Premier. Forse Renzi crede di poter fare di più di Gentiloni, come in passato aveva ritenuto di essere migliore di Letta? O forse la voglia di rivincita e la sua ambizione personale lo spingono a dare un calcio a quel senso di responsabilità istituzionale che il proprio partito aveva sempre dimostrato in passato? O forse ancora sente che il suo partito gli sta sfuggendo di mano e teme che, attendendo troppo, possa correre il rischio che qualcuno gli rompa il giocattolo?

Questo polverone è ancora più incomprensibile se si tiene conto che, votando con l’Italicum rimodellato dalla sentenza della Consulta, molto difficilmente si riuscirebbe ad ottenere una maggioranza netta e coesa, e si finirebbe così per gettare il Paese in una nuova stagione di instabilità. «Nei paesi civili si va alle elezioni a scadenza naturale e da noi manca ancora un anno. In Italia c’è stato un abuso del ricorso alle elezioni anticipate», ha sentenziato giustamente Napolitano. Per mandare a casa un Governo, aggiungo io, occorrono delle motivazioni serie ed importanti, che francamente oggi non esistono. In questo senso, il Renzi che imita il peggior istinto antipolitico di un Grillo o di un Salvini qualunque, ed invoca il voto al fine di evitare i vitalizi dei parlamentari (quegli stessi vitalizi che peraltro un anno fa lui stesso aveva proclamato di aver abolito) è uno spettacolo indegno, che trascina il PD sullo stesso piano di strumentale demagogia delle minoranze cialtrone.

La post-verità secondo Grillo

La post-verità secondo Grillo

Post-verità è la parola dell’anno secondo l’Oxford dictionary. L’utilizzo di questo termine è cresciuto del duemila per cento nel 2016 rispetto all’anno precedente, in virtù sopratutto della campagna referendaria inglese per l’uscita dall’UE e delle elezioni americane vinte da Trump. In entrambi i casi infatti notizie completamente false, spacciate per autentiche, sono state in grado di influenzare una parte dell’opinione pubblica e spostare di conseguenza il voto. Al di là delle veridicità, cio che conta quando si parla di post-truth è la capacità – come sostiene l’Oxford Dictionary – di catturare l’attuale spirito del tempo e di possedere il potenziale per restare culturalmente significativa nel lungo periodo. Il fenomeno, certo non nuovo, conosce oggi nella Rete il veicolo più capillare ed interessato, visto che chi diffonde bufale sul Web lo fa molto spesso per raccattare milioni di clic e di conseguenza gonfiare il proprio portafoglio.

La proposta di Grillo di istituire una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media, colpevoli – a suo dire – di offrire una visione distorta dell’azione politica del Movimento, sfrutta questo contesto per provare ad uscire da una situazione sempre più sfavorevole e di difficile gestione che lo vede coinvolto a Roma, ma non solo. E’ quindi certamente una strategia controffensiva, ma si tratta anche del riflesso di ciò che Grillo ha in mente debba essere la libera informazione: prona ed acritica verso il potere. Mario Calabresi oggi su La Repubblica risponde in modo molto lucido alla becera provocazione dell’ex comico: «Sarebbe sbagliato orchestrare una difesa d’ufficio del giornalismo italiano, senza dubbio non esente da pecche e peccati, ma nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza, per cui chiunque può concionare su vaccini, scie chimiche, chemioterapia o cellule staminali con la pretesa di avere in tasca una verità popolare, da nulla suffragata se non da un sentimento di massa. (…) A noi, però, preoccupa di più il danno che la propaganda grillina arreca al tessuto sociale, alla fiducia nell’informazione e il farsi strada dell’idea che il giornalismo sia establishment a cui contrapporre il popolo. Il nostro popolo è la comunità dei lettori, che è anche il nostro unico giudice. Il suo verdetto lo emette ogni mattina, decidendo se leggerci o no».

Un altro Natale ai tempi del terrorismo

Un altro Natale ai tempi del terrorismo

Un anno fa a chiusura di un post dal titolo “Natale ai tempi del terrorismo” in cui si prendeva in esame la decisione di un preside di una scuola del milanese di vietare i canti religiosi nel concerto natalizio, a seguito degli attentati del 13 novembre a Parigi, scrivevo: “Uno degli obiettivi primari dei terroristi è quello di instaurare un clima di contrapposizione totale, di odio verso chi è diverso da noi, cerchiamo – una volta tanto – di non aiutarli”. Oggi, dopo una stagione di terribili atti terroristici che hanno insanguinato diverse città in Europa ed in Occidente, oltre che nel resto del mondo, ciò che affermavo allora è diventato ancora più vero. Sono trascorse solo una manciata di ore dall’agghiacciante aggressione di Berlino e già le destre xenofobe e le forze populiste tedesche ed europee levano la voce per attaccare la Merkel e i partiti progressisti del continente per le loro aperture a rifugiati e migranti, diventando di fatto lo strumento più efficace per i fondamentalisti islamici che mirano a cambiare la geografia politica europea, ben sapendo che a breve sia in Francia che in Germania e, probabilmente in Italia, vi saranno le elezioni politiche.

Come consuetudine, a seguito di un attentato terroristico si sprecano le analisi e gli approfondimenti di giornalisti ed esperti politologi. Si ha però la sensazione che si faccia fatica ad afferrare il fenomeno nella sua complessità e che non sempre si sia in grado di far emergere con chiarezza l’intricata ragnatela di motivazioni, interessi e strategie che stanno dietro questo scenario di devastazione. Sicuramente l’attuale tattica del terrore va inquadrata in più ampio e lungimirante contesto strategico, che è quello di un’insurrezione guidata dai gruppi jihadisti che mira a proiettare il proprio raggio di azione dalle regioni occupate in Iraq e Siria, alla sfera globale, specie se nelle prime sta vivendo momenti di grande difficoltà. Sarà tutt’altro che semplice e breve per gli Stati Europei offrire una soluzione a tutto questo, anche perchè tale soluzione dovrà passare necessariamente per la complicatissima ricerca di un equilibrio tra integrazione, libertà e sicurezza, che certo forze politiche come l’AFD, Il Front National, l’UKIP, il Fidesz o la Lega non sono in grado di garantire.

Mille giorni di te e di me

Mille giorni di te e di me

Raramente si è vista in questo Paese una campagna referendaria così aspra e lunga. Una decisione, quella di addivenire al referendum, presa da un Governo privo di legittimazione popolare, e discussa da un Senato dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Il rispetto del proprio ruolo avrebbe suggerito ben altro comportamento, ma Matteo Renzi ha dimostrato chiaramente di attribuire molta più importanza alle sue ambizioni personali che all’ Istituzione che rappresenta. Il Presidente dimissionario così non si è fatto alcun scrupolo –  pur di legittimarsi ed imporsi come uomo del cambiamento diverso da tutti gli altri – di trascinare il Paese, già diviso di suo, su un terreno di logorante scontro frontale, facendo della legge più alta e più nobile un mero terreno di consolidamento politico. E’ stato altamente demagogico e ricattatorio che fra le regioni del SI si sia prepotentemente puntato sulla paura. La Costituzione certo non dovrebbe essere svilita da strumentalizzazioni politiche, specie da parte del premier. Ad un certo punto è sembrato che la vittoria del NO avrebbe portato a un’invasione delle cavallette, alla moria del bestiame e alla scomparsa dei primogeniti maschi! Sarebbe stato preferibile che ad agitare paure si fosse lasciato il solo Salvini, da sempre alle prese con l’orrifico pericolo degli immigrati. Che lo abbia fatto anche il Presidente del Consiglio dovrebbe far riflettere su come Renzi abbia dimostrato ancora una volta di non costituire affatto l’argine al populismo, ma che invece sia stato anche lui, a tutti gli effetti, protagonista di un arrogante populismo di destra che si alimenta di qualunquismo, antiparlamentarismo, rifiuto della politica come mediazione, decisionismo vuoto fatto di facili slogan e spregiudicate panzane.

Renzi era arrivato al potere con un giochino di palazzo, 1000 giorni fa, allo scopo di rottamare quanto di vecchio ed inefficace era stato fatto dal proprio partito fino a quel momento, e – a seguire – svuotare il consenso dei 5 Stelle. Se ne va con un PD dilaniato da una stagione di contrasti e divisioni senza precedenti, provocata dalla sua volontà di annientare qualsiasi resistenza della Sinistra interna, giustamente alternativa al suo progetto di “Partito della Nazione“, e perdipiù senza essere minimamente riuscito ad egemonizzare l’opposizione di Grillo e delle destre. Un fallimento evidente per l’uomo che diceva di battersi contro la casta, ma che in poco tempo è diventato casta egli stesso.

La Peggiocrazia

La Peggiocrazia

Imprenditore miliardario e di grido utilizza il successo televisivo per buttarsi in tarda età in politica con posizioni estremamente populiste e reazionarie. Abilissimo nel vendere il proprio brand, dotato di un ego smisurato che sfocia nella presunzione e nell’arroganza, sfrutta le stanchezze di un sistema politico ingessato e deludente, per promuoversi come outsider e anti-establishment, e promettere qualsiasi cosa. Usa frasi ad effetto e battute spesso grevi e volgari per distrarre i media. Ha una passione non proprio trasparente per le ragazze belle e giovani, e seri problemi con il fisco. No, non si sta parlando ancora di Berlusconi, ma del nuovo Presidente degli Stati Uniti. La sorprendente vittoria di Donald Trump getta una luce inquietante – non certo la prima purtroppo – sullo stato di degrado della rappresentanza politica nei regimi democratici. Molti politologi e studiosi stanno cercando di dare delle spiegazioni ad un fenomeno che in questi ultimi anni è esploso in modo eclatante un pò ovunque. Ormai le classi dirigenti, ivi compresa quella politica, non eccellono più rispetto alla massa, anzi ne riflettono fedelmente il grave declino culturale e morale. Le leadership di partito sono ampiamente screditate, ed i populismi, gli esasperati personalismi e gli intrecci di interesse con lobby e gruppi di potere dominano la scena in quella che l’economista Luigi Zingales ha definito la peggiocrazia. Trump, Farage, Le Pen, Orban, Salvini, Grillo e Berlusconi, per quanto diversi fra loro, sono le facce di una stessa medaglia culturalmente retrograda e nazionalista, quand’anche non xenofoba, sessista ed omofoba, che si alimenta di promesse irrealizzabili, di bassi espedienti, di seduzione mediatica, di retorica da “Bar dello Sport”, di insulti gratuiti, di violenza verbale.

Un voto, quello per Trump, che rincorre il radicalismo presente nel malessere sociale e nella rabbia contro “la vecchia classe politica travolta dai fatti e superata dai tempi” come disse Berlusconi nel 1994, nel discorso della discesa in campo. Un voto che, anche in questo caso, non segue più una logica razionale, ma è espressione di una becera tifoseria partigiana. Il sostenitore di Trump oggi, come quello di Berlusconi ieri, è tale proprio perchè si rispecchia nelle stesse caratteristiche che rendono questi personaggi inadeguati ed improponibili per i loro avversari: l’ignoranza, l’arroganza, la violenza, la grettezza. Come scrive Luca Sofri, risulta «cieca ed ingenua tutta la parte degli oppositori di Trump convinti di mettere Trump in difficoltà e fargli perdere consenso sottolineando esattamente le cose per cui Trump diventa forte. Rallegrandosi per le sue presunte “gaffe”, indignandosi per le sue volgarità o trogloditismi, scandalizzandosi per le sue posizioni razziste e violente, ridicolizzandone tratti estetici o linguistici, o ignoranze. Tutto questo è stato fatto in Italia nei passati vent’anni da un’opposizione antiberlusconiana stupida abbastanza da pensare che i sostenitori di Berlusconi condividessero con lei i suoi stessi criteri e approcci, incapace di immaginare degli italiani diversi da sé: mentre era chiaro che chi apprezzava Berlusconi lo apprezzava proprio perché era Berlusconi, e il sostegno che ha saputo conservare anche nei momenti più bassi e imbarazzanti della sua carriera lo ha dimostrato».

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NO!

NO!

Francamente pare surreale che si venga a chiedere di votare SI ad una riforma voluta da un solo uomo, che non soltanto non è stato in grado di raccogliere intorno alla sua iniziativa la più ampia condivisione parlamentare – conditio sine qua non per chiunque voglia intraprendere una revisione della Carta Costituzionale – ma che al riguardo non è neppure riuscito a mettere d’accordo tutto il suo partito.

E’ già discutibile che un Governo privo dell’investitura popolare si prenda carico di modificare ben 47 articoli della Costituzione, ma che lo si faccia con una riforma controversa come questa è davvero cosa inammissibile. E se è vero che il referendum costituzionale è possibilità prevista dalla Costituzione stessa, è altrettanto vero che, data la complessità della materia e l’eventualità di modificare gran parte dell’assetto costituzionale, non è forse lo strumento più indicato per giudicare qualcosa su cui neppure i costituzionalisti e gli studiosi di diritto sono giunti ad una posizione ragionevolmente unitaria. E’ evidente quindi che ci si trovi dinanzi ad una riforma fortemente divisiva, ossia l’esatto contrario di ciò che in realtà dovrebbe essere, visto che la Costituzione, fondamento della democrazia, rappresenta l’ombrello sotto il quale devono vivere tutti i cittadini, e non solo una parte. Dispiace che le manie di protagonismo di un solo uomo abbiano ricadute così importanti, anche in termini economici, sulla vita pubblica del Paese. Una spesa di oltre 200 milioni di euro per un referendum in tempo di crisi non è la soluzione più saggia, specie se si poteva tranquillamente evitare con un approccio meno avventato ed arrogante alla questione. Ma si sa che il premier ha fatto dell’arroganza la propria cifra politica ed istituzionale, e se un’eventuale vittoria del NO dovesse servire anche a ridimensionare le sue velleità da “conducator”, sarà un effetto collaterale per il quale si potrà anche fare a meno di strapparsi i capelli!

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