diBossioni!

diBossioni!

E così, dopo l’uscita di scena di berlusconi dello scorso novembre, anche Umberto Bossi è costretto ad abbandonare il suo posto di comando. I due uomini che per vent’anni hanno retto le pessime sorti della Seconda Repubblica, si trovano oggi accumunati da un analogo destino. Le dimissioni del Senatur ufficializzano la crisi del suo partito, evidente ormai da diverso tempo. Difficile considerare l’esperienza di Governo della Lega in modo anche solo lontanamente positivo. Il partito di Bossi infatti in quasi vent’anni non è riuscito ad ottenere nessuno degli obiettivi che si era prefissato. La sua presenza a Roma non ha potuto far altro che rendere insostenibile la contraddizione di un movimento che pur non riconoscendo la sovranità dello Stato Italiano, si è trovato a rappresentarlo all’interno delle Istituzioni, nel peggiore dei modi possibili, muovendosi sempre secondo dinamiche che hanno fomentato localismi e chiusure identitarie, e spinto all’intolleranza e al rifiuto di chi è diverso.
 
I motivi che costringono Bossi ai margini della scena politica provocano una particolare amarezza, specie se si considerano le origini del suo partito. Nato come reazione alla corruzione della Prima Repubblica ed ora interprete proprio di quella stessa ladroneria che vent’anni fa contestava con tanta veemenza. E’ la nemesi della Lega e la fine politica del suo leader, stretto – anche a causa della malattia che lo ha colpito nel 2004 – all’interno di un cerchio magico [che oggi sarebbe più opportuno definire tragico] di collaboratori e familiari, rivelatisi spregiudicati profittatori. E se la decisione di dimettersi è senz’altro apprezzabile, lo stesso non si può dire delle dichiarazioni rilasciate anche in queste ore, che parlano  – all’insegna del più stantio sproloquio berlusconiano – di “giustizia ad orologeria”. Anche in questo quindi il populismo di Bossi si fonde con il cesarismo dell’ex premier. Due facce dello stesso tracollo culturale e sociale, ancor prima che politico, che l’Italia ha dovuto subire in questi anni.
La difficile vita del tesoriere

La difficile vita del tesoriere

E’ indubbio ormai che fare il tesoriere di un partito politico sia un mestiere terribilmente usurante. Avere ogni giorno a che fare con vagonate di soldi senza essere colti dalla tentazione di impiegarli in modo indebito è umanamente impossibile. Come biasimare allora il senatore Luigi Lusi, tesoriere della Margherita, indagato per aver prelevato dalle casse del partito, naturalmente ad insaputa della dirigenza, almeno 13 – diconsi 13 – milioni di euro, ed averli quindi spesi per acquistare appartamenti di lusso, ville ai Castelli Romani, perfino una casetta in Canadà. Costringendo così il buon Rutelli ad uno sfiancante tour mediatico con l’obiettivo di convincere l’opinione pubblica della sua estraneità ai fatti, come se da un punto di vista meramente politico, essere così fessi da farsi soffiare sotto il naso fiumi di denaro sia davvero tanto meglio d’essere dei ladri.

Come già successo con Lusi, risulta davvero troppo facile fare i fustigatori della domenica nei confronti del povero tesoriere del Carroccio Francesco Belsito [con illustri trascorsi di buttafuori nelle discoteche della riviera ligure e di titolare di un’impresa di pulizie], accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato e appropriazione indebita. Avrebbe infatti usato parte dei finanziamenti pubblici della Lega per sostenere alcune spese della famiglia Bossi. Una persona come berlusconi, che ha sempre fatto della trasparenza e della rettitudine morale una linea personale di condotta, ha pensato bene – dall’alto della sua incontestabile autorevolezza – di rilasciare al riguardo una sollecita dichiarazione: «Chiunque conosca Umberto Bossi come me non può essere neanche sfiorato dal sospetto che abbia commesso alcunché di illecito». Con un garante così, come possibile dubitare?

10 anni senza Billy

10 anni senza Billy

Il 27 marzo di 10 anni fa ci lasciava uno dei più grandi registi e sceneggiatori di sempre. Un uomo che una volta riassunse la sua carriera in modo folgorante: «Ho solo fatto i film che avrei voluto vedere». Ma cosa sarebbe stata la Settima Arte senza questi film? Senza il genio dissacrante di Billy Wilder? C’è infatti lui dietro alcune delle immagini più iconiche o delle frasi più memorabili della Storia del Cinema: da Marylin Monroe col famoso vestito bianco svolazzante sulla grata della metropolitana in Quando la Moglie è in Vacanza, a Jack Lemmon e Tony Curtis musicisti travestiti in A Qualcuno Piace Caldo, a William Holden cadavere galleggiante nella piscina della diva del muto Gloria Swanson in Viale del Tramonto. E l’elenco potrebbe continuare ancora. E’ curioso come un regista così vicino alla commedia, i cui lavori sono caratterizzati da personaggi brillanti e dialoghi scoppiettanti, abbia frequentato con immutata bravura i generi più disparati, spesso forzando i limiti della censura con una provocatoria scelta di soggetti, fra i quali l’adulterio nel 1944 con La Fiamma del Peccato, l’alcolismo nel 1945 con Giorni perduti, la prostituzione maschile nel 1950 sempre con Viale del Tramonto, il cinismo dei media con L’Asso nella Manica un anno dopo. 

«Per dirigere una buona commedia bisogna essere molto seri» disse una volta, ed è proprio questo suo rigore, questo disincanto di uomo venuto da un Europa minacciata dal nazismo che rende fondamentale la sua figura. Un uomo che ha interpretato il suo ruolo con estrema consapevolezza, non rinunciando mai ad una buona dose di ironia. La stessa che lo ha portato a far scrivere sulla sua lapide:  «Sono uno scrittore, ma in fondo nessuno è perfetto».

Il Governo Montusconi

Il Governo Montusconi

Quando nel novembre scorso si insediò il Governo Monti, furono due i refrain ripetuti fino allo sfinimento. In primis l’azione dell’esecutivo sarebbe stata improntata a criteri di massima urgenza e circostanzialità. Avrebbe dovuto – cioè – porre in essere una serie di misure dirette esclusivamente a far uscire il Paese dalle sacche di una grave crisi. Tali misure, secondariamente, avrebbero perseguito fini di equità sociale, di modo da distribuire con giustezza i sacrifici che gli italiani avrebbero dovuto compiere.

Oggi, dopo 4 mesi di cura Monti, penso che non sia cosa azzardata sostenere che nessuno di questi due principi sia stato rispettato. Per molti versi la politica del nuovo Governo – come molti osservatori stanno evidenziando –  si caratterizza piuttosto come una mera prosecuzione di quella del precedente. La finanziaria non ha previsto alcuna patrimoniale, l’IVA è stata portata al 23%, e lo smantellamento dell’Art. 18 è diventato il tema centrale della riforma del lavoro. Tre esempi fra gli altri che servono ad inquadrare come l’esecutivo si sia limitato a procedere lungo il solco di  una politica illiberale ed autoritaria tipica della destra berlusconiana, perdipiù utilizzando la clava dell’apparente cifra tecnica e dell’ottima considerazione che fino ad ora gli è stata accordata da stampa ed opinione pubblica. Una politica che peraltro sta mettendo sempre più in difficoltà il Partito Democratico, diviso fra la fedeltà al Governo e la difesa dei diritti dei lavoratori.

Lo strano caso dell’emendamento del PD presentato e poi ritirato

Lo strano caso dell’emendamento del PD presentato e poi ritirato

«Abrogare il reato di concussione e trasformarlo in corruzione o estorsione. È uno degli emendamenti proposti dal Pd al ddl anticorruzione. E di per sé non farebbe notizia se non fosse che la modifica rischia di diventare causa immediata di proscioglimento di Silvio Berlusconi nel processo Ruby per il reato di concussione, cioè per l’ormai famosa telefonata dell’ex premier in Questura con cui fece liberare Ruby in quanto “nipote di Mubarak”. Il processo continuerebbe per l’altro reato, la prostituzione minorile, ma non per questo, a meno che il giudice non lo qualifichi come estorsione o come corruzione. Il che è impossibile. Tutt’al più come abuso d’ufficio, punito però fino a 3 anni, mentre la concussione ne prevede 12, e mandando al macero le prove raccolte».
 
Così Il Sole24ore a proposito dello scellerato emendamento del PD che avrebbe potuto fare un enorme regalo all’ex premier.  Senza entrare nel merito giuridico della vicenda, perchè marginale ai fini del ragionamento che in molti hanno fatto una volta appresa la notizia, mi pare che al riguardo si possano fare soltanto due generi di considerazioni. O quelli del PD sono in malafede, oppure sono degli sprovveduti. Scartando l’ipotesi più grave, per estrema bontà d’animo, resta la seconda. E’ davvero possibile che nessuno nel Partito Democratico possa essersi accorto che questo emendamento – presentato ben prima dell’affaire Ruby – se approvato adesso sarebbe andato ad impattare sul processo riguardante berlusconi? E questo dopo mesi e mesi in cui Bersani e gli altri dirigenti del partito si erano spesi, in tutte le tribune immaginabili, per stigmatizzare l’evidente reato di concussione in cui il Caimano era incorso? E’ possibile che si sia dovuto attendere la reazione dei media e l’accusa di Di Pietro per ritirare l’emendamento, con una pezza che non fa altro che confermare il gravissimo errore di valutazione politica al riguardo?
I Classici del Cinema – La Grande Guerra

I Classici del Cinema – La Grande Guerra

Alberto Sordi e Vittorio Gassman sono una coppia di soldati cialtroni e sfaticati, tipici esempi di lavativi che verso la fine della Prima Guerra Mondiale si fanno simbolo di un esercito decimato ed avvilito. Dopo una serie di tragicomiche peripezie in cui cercano soltanto di evitare i pericoli del conflitto, vengono catturati dagli austriaci, i quali li minacciano di morte qualora non forniscano preziose informazioni. Stanno per cedere, quando di fronte al disprezzo verso il coraggio degli italiani dell’ufficiale austriaco che li interroga – «Gli italiani conoscono un solo fegato, quello con le cipolle che fanno a Venezia» – in un sussulto di dignità ed orgoglio nazionale, decidono di tacere – «E allora senti un po’, visto che parli così… Mi te disi propi un bel nient! Hai capito? Facia de merda!» – finendo così per essere fucilati.

Ne La Grande Guerra [1959] il conflitto non si limita a fungere da semplice cornice, ma è – a tutti gli effetti – un elemento di primo piano della vicenda. Mario Monicelli, grazie anche ai considerevoli mezzi messi a disposizione dal produttore Dino De Laurentiis, può fare uso di grandi scene di massa con un elevato numero di comparse, esaltando così una accuratissima ricostruzione storica. La sceneggiatura che mescola sapientemente ironia e comicità a passaggi amari ed altamente drammatici, incontra – ancor prima che la pellicola esca nelle sale – le feroci polemiche dell’ambiente politico, che stupidamente teme che il film infanghi la memoria dei caduti. Invece il lavoro del regista viareggino è uno splendido affresco corale, in grado di mostrare la guerra fuori da ogni retorica, dal punto di vista della trincea e dei soldati. Un’acuta riflessione storica, che demitizza la visione patinata e romantica della battaglia e dell’eroismo. «Altro che retorica e patriottismo» dichiara Monicelli «i soldati italiani erano una massa di straccioni che si spulciavano a vicenda. In fondo la guerra l’abbiamo vinta perchè austriaci e tedeschi decisero di non sopportare più tutte quelle perdite umane. Però né noi né i francesi abbiamo mai vinto una battaglia. Ce l’abbiamo fatta perchè i poveri cafoni analfabeti chiamati alle armi dal nostro Mezzogiorno vivevano come animali, in condizioni ancora peggiori di quelle dell’esercito, dunque perfino la vita al fronte poteva sembrare un miglioramento. Ma questo allora non lo aveva ancora raccontato nessuno». La contaminazione fra commedia e dramma – mai così felice come in questo capolavoro assoluto del Cinema Italiano, vincitore del Leone d’oro a Venezia – è resa indimenticabile dalla maestosa prova di Sordi e Gassman, coadiuvati da un parterre di formidabili comprimari, fra i quali Romolo Valli, Silvana Mangano, Folco Lulli e Tiberio Murgia.

Il Salvacondotto

Il Salvacondotto

In questi giorni ho letto da più parti che, per la sua uscita di scena a novembre, berlusconi avrebbe preteso una sorta di salvacondotto giudiziario per lui ed i suoi amichetti. Sono sempre stato restio a prendere in considerazione questo genere di ipotesi che sanno così tanto di fantapolitica. Perdipiù sono convinto dell’indipendenza del potere giudiziario rispetto a quello politico. Non ho mai ritenuto, ad esempio, che vi sia mai stato un accanimento politico di parte della magistratura nei confronti dell’ex premier, il quale – semmai – è sceso in politica proprio per non rispondere di vari reati, fra cui alcuni contestati ben prima del 1993, anno in cui fondò Forza Italia insieme a Marcello Dell’Utri.

In particolare Luca Telese su Il Fatto  pone l’accento sull’apparente [e, a suo dire, piuttosto sospetta] casualità di alcuni fatti giudiziari, avvenuti tutti successivamente all’insediamento di Monti a Palazzo Chigi. Il giudizio della Corte Costituzionale contrario alla legittimità dello scomodo referendum anti porcellum, poi la prescrizione per l’ex premier al processo Mills, e poi ancora la sorprendente sentenza della Cassazione di pochi giorni fa che ha stabilito che il processo Dell’Utri sia da rifare [decisione che verosimilmente condurrà anche il senatore del PdL verso la prescrizione]. Solo coincidenze? Mah… chissà… probabilmente sì, anche se più di un’osservatore è pronto a scommettere che l’ex premier sarebbe stato disposto ad affossare l’intero Paese, pur di non farsi da parte senza una garanzia sull’ impunità giudiziaria sua e del suo sodale. Del resto questa è una soluzione prospettata in tempi non sospetti ed in modo esplicito anche da politici di primo piano, come ad esempio Rocco Buttiglione.

I Classici del Cinema – Rebecca, la Prima Moglie

I Classici del Cinema – Rebecca, la Prima Moglie

«La scorsa notte ho sognato di essere tornata a Manderley». Così inizia Rebecca, la Prima Moglie [1940], con un suggestivo prologo di 2 minuti raccontato dalla voce fuori campo della protagonista, a cui fa seguito un lunghissimo flashback che compone il resto del film. Una giovane e timida dama di compagnia sposa Maxim De Winter, un ricchissimo gentiluomo inglese e si trasferisce nella sua dimora, lo spettrale castello di Manderlay. Qui deve affrontare l’ostilità della signora Danvers, la gelida governante che vive nell’adorazione morbosa per la prima moglie del padrone. Il ricordo ossessivo di Rebecca e il mistero che circonda la sua tragica morte spingeranno la giovane sull’orlo della pazzia. Tratta – come sarà anche per Gli Uccelli – da un romanzo di Daphne du Maurier, la pellicola è uno dei massimi capolavori di Alfred Hitchcock, qui alla prima prova negli Stati Uniti. L’unica – strano a dirsi – capace di conquistare l’Oscar come miglior film.

Il regista introduce da subito il tema del sogno e stabilisce l’atmosfera onirica che pervade tutto il film, riuscendo a stemperare le tonalità melò del romanzo, con la suspence del giallo ed il gotico dell’ambientazione. La narrazione, frutto dei ricordi della seconda signora De Winter [a cui un’indimenticabile Joan Fontaine conferisce la perfetta dose di vulnerabilità ed insicurezza], è funzionale ad instaurare un clima obliquo di paranoia, all’interno di una cornice apparentemente romantica. Rebecca, la prima moglie è in effetti un formidabile gioco di apparenze ed inganni. Nulla e nessuno sono ciò che sembrano, tutto è equivoco, ambiguo. Il film stesso, che – come detto – coincide con il racconto che fa il personaggio della Fontaine, non può, per questo motivo, rispondere ai criteri oggettivi della realtà. I contenuti presenti, a cominciare proprio da quello del “doppio” [sviluppato successivamente in lavori come La Donna che Visse Due Volte e in Delitto per Delitto], per andare poi al condizionamento del passato, all’innocente accusato ingiustamente, al senso di colpa, al sogno, sono già quelli tipici della filmografia hitchcockiana. Il regista inglese, come poi succederà con il motel di Norman Bates in Psycho, connota il castello di Manderley di una tale forza da renderlo a tutti gli effetti un personaggio centrale della storia, capace di custodire i segreti di Rebecca – così incredibilmente presente nella sua assenza – e permeare l’intreccio di un’opprimente atmosfera da favola nera. Magistrale è la regia, estremamente raffinata nella messa in scena e abilissima nell’evidenziare la complessità psicologica della storia.

Lega ladrona?

Lega ladrona?

Fatto salvo il famoso principio della presunzione di innocenza fino a giudizio emesso, l’indagine per corruzione a carico del presidente del Consiglio Regionale della Lombardia, il leghista Davide Boni, è una bella tegola in casa del Carroccio. Se l’accusa finale fosse di colpevolezza, infatti, dimostrerebbe nel modo peggiore che anche il partito di Bossi, nato vent’anni fa come reazione al sistema politico centralista, fatto di ruberie e corruttele, è ormai pienamente organico al regime di malaffare messo in piedi dal PdL e che, perlomeno in ambito milanese, ha visto coinvolto anche un esponente di punta del PD.

Ciò che dispiace sono le prime reazioni del Senatur e di gran parte della dirigenza del partito, che – nel miglior stile berlusconiano – parlano di ritorsioni e complotti orditi dalla magistratura.  Se poi si nutrisse ancora qualche dubbio sull’idea di trasparenza e democraticità in seno al Carroccio, basta leggere il suo organo ufficiale di informazione, La Padania, che per il secondo giorno consecutivo omette di parlare della vicenda, preferendo – evidentemente – concentrarsi su notizie sicuramente più importanti, come la sagra della polenta taragna col cotechino a Brembate di Sopra.

Ripensare la politica

Ripensare la politica

Le vicende legate alla controversa realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione in Val di Susa, sono assurte da tempo agli onori della cronaca. Mi domando perchè a fronte delle crescenti manifeste perplessità, e non mi riferisco soltanto a quelle portate avanti dagli abitanti della zona, quanto in particolare a quelle di tecnici, studiosi e ricercatori, il Governo abbia preferito assumere una posizione intransingente. E’ della scorsa settimana uno studio di ben 360 docenti ed esperti che evidenzia le ambiguità di un’opera come la TAV e si appella a Monti affinchè riconsideri il progetto. A fronte di così tanti dubbi, esistono però anche delle certezze. E’ cosa certa, infatti, che nel momento in cui si esauriscono gli spazi per un confronto e una mediazione, arrivi sempre la violenza. Altrettanto sicuro è che laddove ci siano concentrazioni di masse, meglio ancora se sotto i riflettori dei media, si infiltrino immancabilmente agenti provocatori o persone animate da logiche ed interessi diversi da quelli sul tappeto.

E’ evidente ormai come la vicenda della TAV abbia travalicato i problemi originari, e sia diventata simbolica del malessere che la gente avverte nei confronti della politica e delle istituzioni, non più percepite come rappresentative delle istanze popolari. E’ forte il bisogno che la nostra democrazia torni ad essere partecipativa e metta al centro del proprio agire la capacità di dialogare e comprendere, e non tanto lo sterile scontro fra tifoserie contrapposte.