Sfogliato da
Mese: Febbraio 2017

La corsa del coniglio

La corsa del coniglio

Massimo Giannini su La Repubblica: «La responsabilità primaria pesa tutta sull’ex segretario. Toccava a lui, non da oggi, farsi carico di tenere unita quella “comunità di senso e di destino” che dovrebbe ma non è mai riuscito ad essere il Pd. Toccava a lui, anche solo per un giorno, mettere da parte le ragioni e i torti dei due schieramenti, e indicare una via d’uscita condivisa. E invece, ancora una volta, Renzi non è riuscito ad andare oltre se stesso. Non ha saputo o non ha voluto aprire spiragli, rimettendo in discussione la sua road map “da combattimento” e i suoi tre anni di governo. Ha riproposto il solito linguaggio conflittuale (dalla “sfida” ai “ricatti”) e il solito schema concorrenziale (“Se siete capaci, sconfiggetemi al congresso”). Soprattutto, non ha fugato l’atroce sospetto rivelato dal “fuorionda” di Delrio: “I renziani pensano che la scissione convenga, perché così diminuiscono le poltrone da distribuire…”. La vera posta in gioco può essere il potere, e non l’identità?». Così invece il direttore Mario Calabresi: «Un compromesso alto è possibile se i contendenti faranno un passo indietro. In questo senso la prima responsabilità dovrebbe averla Matteo Renzi. Spetta prima di tutto a lui il compito di tenere unito il suo partito, lui deve farsi carico delle esigenze di un grande movimento in cui devono coesistere sensibilità diverse. È lui che deve avere l’elasticità di rappresentare le diverse culture presenti nel Pd. È il segretario del partito che ha l’onere di trovare in prima istanza una soluzione che rimetta i democratici in condizione di essere vincenti e un punto di riferimento culturale e sociale per il Paese».

Entrambi gli articoli continuano addossando alla minoranza dem una parte di responsabilità su quanto sta succedendo. E’ evidente che quando si giunge ad una separazione la colpa non è mai tutta di una sola parte, ma è altrettanto evidente che Renzi sia stato il peggior segretario che il PD potesse mai avere. Dopo aver dilaniato il Paese sul tema della Costituzione, la sua leadership – da sempre contraddistinta da un sistematico disprezzo per il dissenso interno e da una particolare passione per le ambizioni personali piuttosto che per gli interessi della propria comunità – divide oggi il partito.  Oltre che divisivo però il segretario è andato gradualmente definendosi anche come un gigantesco equivoco ed uno straordinario bluff. Un equivoco perchè si è pensato che anche il PD, così come FI o il M5S,  avesse bisogno per vincere di un capo che seguisse la logica cesarista e del pensiero unico, che fosse prima di tutto seduttore televisivo, con la battuta pronta e lo slogan populista facile. Dimenticando però che il segretario di un partito che ha fatto del pluralismo il suo tratto distintivo deve prima di ogni altra cosa saper ascoltare, mediare e convincere, tutte qualità che Renzi non ha mai dimostrato di possedere. Un bluff perchè Renzi ha perso su tutti i fronti: non è riuscito ad accreditarsi presso l’elettorato di destra a cui ha sempre puntato, non è riuscito a svuotare il consenso dei Cinque Stelle, non è riuscito nel suo programma di riforme e, in ultimo, non è riuscito a tenere insieme il suo partito.  Aggredendo gli esponenti del PD critici verso la sua linea politica sempre lontana dalle istanze della Sinistra, molto più che i tradizionali avversari esterni, come Grillo, Salvini e Berlusconi, Renzi ha instaurato dentro il partito un clima di progressivo livore e  logoramento  che ha avuto come logica conseguenza quanto sta succedendo in questi giorni. Renzi sarà ricordato come l’uomo che ha stravolto la natura ed i valori fondanti del Partito Democratico, finendo per frantumarlo. Il dubbio, però, è che su quella macchina lanciata in corsa verso lo strapiombo non ci sia soltanto un partito politico, ma tutta l’Italia.

Il Sistema che si finge Antisistema

Il Sistema che si finge Antisistema

Tutti a gridare al voto. Ma perchè, verrebbe da domandarsi. Se è più logico che forze come Lega o M5s siano le più agguerrite nel richiedere che si torni al più presto alle urne, per capitalizzare il successo referendario di dicembre, non è altrettanto lecito che lo faccia il PD. Mentre le prime – infatti – sono forze all’opposizione che da sempre giocano allo sfascio, quest’ultimo resta il partito che esprime il Presidente del Consiglio e la cui maggioranza parlamentare sorregge tuttora il Governo. La compagine dell’esecutivo è rimasta nella sostanza inalterata, rispetto alla precedente, l’unico elemento che è mutato è il Premier. Forse Renzi crede di poter fare di più di Gentiloni, come in passato aveva ritenuto di essere migliore di Letta? O forse la voglia di rivincita e la sua ambizione personale lo spingono a dare un calcio a quel senso di responsabilità istituzionale che il proprio partito aveva sempre dimostrato in passato? O forse ancora sente che il suo partito gli sta sfuggendo di mano e teme che, attendendo troppo, possa correre il rischio che qualcuno gli rompa il giocattolo?

Questo polverone è ancora più incomprensibile se si tiene conto che, votando con l’Italicum rimodellato dalla sentenza della Consulta, molto difficilmente si riuscirebbe ad ottenere una maggioranza netta e coesa, e si finirebbe così per gettare il Paese in una nuova stagione di instabilità. «Nei paesi civili si va alle elezioni a scadenza naturale e da noi manca ancora un anno. In Italia c’è stato un abuso del ricorso alle elezioni anticipate», ha sentenziato giustamente Napolitano. Per mandare a casa un Governo, aggiungo io, occorrono delle motivazioni serie ed importanti, che francamente oggi non esistono. In questo senso, il Renzi che imita il peggior istinto antipolitico di un Grillo o di un Salvini qualunque, ed invoca il voto al fine di evitare i vitalizi dei parlamentari (quegli stessi vitalizi che peraltro un anno fa lui stesso aveva proclamato di aver abolito) è uno spettacolo indegno, che trascina il PD sullo stesso piano di strumentale demagogia delle minoranze cialtrone.