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Anno: 2017

Il figliol prodigo

Il figliol prodigo

Renzi che oggi chiede un’alleanza con la Sinistra fornisce tutta una nuova serie di significati alle parole spregiudicatezza ed ipocrisia. Dopo aver trascorso tutti suoi anni da Premier ed oltre ad insultare la Sinistra, dopo aver provato in ogni modo possibile ed immaginabile a far suo l’elettorato di destra, orfano di Berlusconi, dopo aver eliminato l’Art. 18, bandiera della Sinistra, dopo un fallimentare Jobs Act, dopo aver fatto naufragare il referendum sulle trivelle, dopo la clamorosa sconfitta del 4 dicembre 2016, dopo aver imposto l’Italicum a colpi di fiducia, dopo esser stato responsabile della più grande diaspora dal suo partito, dopo aver siglato il primo Nazareno ed aver poi paventato il secondo solo poche ore prima di questa straordinaria piroetta, oggi – quando la destra dimostra di sapersi ricompattare (e vincere) intorno all’asse Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, cancellando per sempre ogni residua speranza di costruire un Partito della Nazione – Renzi si accorge che esiste uno spazio alla sinistra di un PD “normalizzato” (utilizzando un eufemismo) con cui potrebbe – udite udite – persino pensare di allearsi in vista delle prossime elezioni politiche. Una mossa che ovviamente mira prima di ogni altra cosa a boicottare il processo di riunificazione della Sinistra, dividendo quel campo fra chi – giustamente – non intende far parte di un’allenza a trazione renzista e chi, invece, potrebbe esser più possibilista secondo però certe condizioni.

Insomma: al Renzi figliol prodigo non crede nessuno e soprattutto nessuno vuole l’ex Presidente del Consiglio a guida di questa eventuale coalizione. Renzi è come un animale ferito che “vede” la prossima sconfitta elettorale, l’ennesima, la definitiva, e cerca di uscire da un angolo sempre più angusto in cui si è però infilato da solo con una serie di decisioni via via più invise alla pubblica opinione. Il segretario del PD che oggi punta ad un partito «aperto e plurale», dopo che per anni ha lavorato all’esatto contrario, è la plastica rappresentazione dei mille nodi venuti al pettine a seguito di una leadership scellerata.

Stupratori a casa loro

Stupratori a casa loro

Le affermazioni di Debora Serracchiani sul fatto che uno stupro perpetrato da un profugo sia da considerarsi più schifoso di quello di un italiano, perchè oltre ad usare violenza nei confronti di una donna romperebbe il patto di accoglienza in essere col Paese che lo ha ospitato, la dicono lunga su cosa sia diventato il partito di Renzi. Questi democratici in crisi di consenso hanno talmente paura di lasciare agli avversari politici la connessione col “comune sentire” del Paese che si stanno producendo in una serie di dichiarazioni o – ancor peggio – di legiferazioni tutte improntate a rincorrere l’onda emotiva del momento. Eccoli quindi dar fiato a cavalli di battaglia di facilissima presa come il daje all’immigrato, la sacrosanta revolverata notturna, l’Europa dei banchieri e dei tecnocrati e via così in un repertorio molto poco “illuminato” (ed illuminante) che certo starebbe molto meglio in bocca ad un Salvini o a un Gasparri, dimenticando purtroppo che il politico di razza non è colui che insegue l’elettorato, ma colui che lo guida.

Personalmente provo pena per un partito che in passato è stato il faro della Sinistra e che oggi, in mano ai renziani, è diventato uno strumento che – ben lungi dal perseguire l’obiettivo di migliorare le condizioni di un Paese, allo sbando sotto molti aspetti, non ultimo quello sociale e culturale – mira soltanto a mantenere le proprie posizioni di potere e di rendita. Meglio avrebbe fatto l’ex sindaco di Firenze, all’indomani della vittoria alle Europee, a farsi un partito tutto suo, come Macron in Francia. Lo avrebbero seguito in tanti ed avrebbe evitato di violentare (per tornare a bomba) una cultura politica che non gli appartiene ed i valori fondanti di un Partito che meriterebbe ben altra guida.

Democrazia dall’alto

Democrazia dall’alto

Tutti i sondaggi sulle intenzioni di voto (per quello che ancora valgono) indicano da qualche tempo il sorpasso del M5S sul PD. Gli ultimi mesi per il partito di Renzi sono stati segnati da una serie di errori più o meno grossolani: il referendum costituzionale, la scissione, la vicenda Consip, la questione Minzolini. A trarne giovamento sono stati i pentastellati, che – benchè protagonisti di vicende assai discutibili – continuano a godere di un crescente credito da parte dell’elettorato. Qualche giorno fa, a Genova, è andata in scena l’ennesima dimostrazione di come il movimento venga gestito in modo autoritario ed illiberale dal proprio leader, con buon pace della formuletta tanto strombazzata quanto menzognera dell’uno che vale uno. Il guru del vaffa ha annullato il voto on-line delle comunali del capoluogo ligure, ha tolto il simbolo alla vincitrice e ha quindi indetto una seconda votazione che ha promosso con circa 16.000 preferenze un candidato a lui gradito.

Per giustificare la sua decisione Grillo ha chiesto un atto di fede nei suoi confronti, intimando a chi non fosse d’accordo di andarsene  e di fondare un nuovo partito. Sta tutto qui il senso di una forza politica che si configura molto più come una setta piuttosto che un partito. Una sorta di confraternita che, dietro il paravento di una propaganda mediatica tutta giocata su parole chiave come “democrazia dal basso” o “approccio partecipativo”, nasconde in realtà una gestione  cesaristica e dittatoriale che non prevede, nè tantomeno tollera, alcuna digressione rispetto al pensiero unico del capo. Il cosiddetto “garante” (straordinario eufemismo) infatti fa e disfà con grande disinvoltura e senza alcun sostanziale dibattito interno, e – cosa ancor più preoccupante – effettiva censura da parte del proprio elettorato. Se questa è l’idea del confronto democratico che deve regolare una comunità di persone, cosa ci aspetterà una volta che il Movimento dovesse conquistare il mandato per governare il Paese?

La corsa del coniglio

La corsa del coniglio

Massimo Giannini su La Repubblica: «La responsabilità primaria pesa tutta sull’ex segretario. Toccava a lui, non da oggi, farsi carico di tenere unita quella “comunità di senso e di destino” che dovrebbe ma non è mai riuscito ad essere il Pd. Toccava a lui, anche solo per un giorno, mettere da parte le ragioni e i torti dei due schieramenti, e indicare una via d’uscita condivisa. E invece, ancora una volta, Renzi non è riuscito ad andare oltre se stesso. Non ha saputo o non ha voluto aprire spiragli, rimettendo in discussione la sua road map “da combattimento” e i suoi tre anni di governo. Ha riproposto il solito linguaggio conflittuale (dalla “sfida” ai “ricatti”) e il solito schema concorrenziale (“Se siete capaci, sconfiggetemi al congresso”). Soprattutto, non ha fugato l’atroce sospetto rivelato dal “fuorionda” di Delrio: “I renziani pensano che la scissione convenga, perché così diminuiscono le poltrone da distribuire…”. La vera posta in gioco può essere il potere, e non l’identità?». Così invece il direttore Mario Calabresi: «Un compromesso alto è possibile se i contendenti faranno un passo indietro. In questo senso la prima responsabilità dovrebbe averla Matteo Renzi. Spetta prima di tutto a lui il compito di tenere unito il suo partito, lui deve farsi carico delle esigenze di un grande movimento in cui devono coesistere sensibilità diverse. È lui che deve avere l’elasticità di rappresentare le diverse culture presenti nel Pd. È il segretario del partito che ha l’onere di trovare in prima istanza una soluzione che rimetta i democratici in condizione di essere vincenti e un punto di riferimento culturale e sociale per il Paese».

Entrambi gli articoli continuano addossando alla minoranza dem una parte di responsabilità su quanto sta succedendo. E’ evidente che quando si giunge ad una separazione la colpa non è mai tutta di una sola parte, ma è altrettanto evidente che Renzi sia stato il peggior segretario che il PD potesse mai avere. Dopo aver dilaniato il Paese sul tema della Costituzione, la sua leadership – da sempre contraddistinta da un sistematico disprezzo per il dissenso interno e da una particolare passione per le ambizioni personali piuttosto che per gli interessi della propria comunità – divide oggi il partito.  Oltre che divisivo però il segretario è andato gradualmente definendosi anche come un gigantesco equivoco ed uno straordinario bluff. Un equivoco perchè si è pensato che anche il PD, così come FI o il M5S,  avesse bisogno per vincere di un capo che seguisse la logica cesarista e del pensiero unico, che fosse prima di tutto seduttore televisivo, con la battuta pronta e lo slogan populista facile. Dimenticando però che il segretario di un partito che ha fatto del pluralismo il suo tratto distintivo deve prima di ogni altra cosa saper ascoltare, mediare e convincere, tutte qualità che Renzi non ha mai dimostrato di possedere. Un bluff perchè Renzi ha perso su tutti i fronti: non è riuscito ad accreditarsi presso l’elettorato di destra a cui ha sempre puntato, non è riuscito a svuotare il consenso dei Cinque Stelle, non è riuscito nel suo programma di riforme e, in ultimo, non è riuscito a tenere insieme il suo partito.  Aggredendo gli esponenti del PD critici verso la sua linea politica sempre lontana dalle istanze della Sinistra, molto più che i tradizionali avversari esterni, come Grillo, Salvini e Berlusconi, Renzi ha instaurato dentro il partito un clima di progressivo livore e  logoramento  che ha avuto come logica conseguenza quanto sta succedendo in questi giorni. Renzi sarà ricordato come l’uomo che ha stravolto la natura ed i valori fondanti del Partito Democratico, finendo per frantumarlo. Il dubbio, però, è che su quella macchina lanciata in corsa verso lo strapiombo non ci sia soltanto un partito politico, ma tutta l’Italia.

Il Sistema che si finge Antisistema

Il Sistema che si finge Antisistema

Tutti a gridare al voto. Ma perchè, verrebbe da domandarsi. Se è più logico che forze come Lega o M5s siano le più agguerrite nel richiedere che si torni al più presto alle urne, per capitalizzare il successo referendario di dicembre, non è altrettanto lecito che lo faccia il PD. Mentre le prime – infatti – sono forze all’opposizione che da sempre giocano allo sfascio, quest’ultimo resta il partito che esprime il Presidente del Consiglio e la cui maggioranza parlamentare sorregge tuttora il Governo. La compagine dell’esecutivo è rimasta nella sostanza inalterata, rispetto alla precedente, l’unico elemento che è mutato è il Premier. Forse Renzi crede di poter fare di più di Gentiloni, come in passato aveva ritenuto di essere migliore di Letta? O forse la voglia di rivincita e la sua ambizione personale lo spingono a dare un calcio a quel senso di responsabilità istituzionale che il proprio partito aveva sempre dimostrato in passato? O forse ancora sente che il suo partito gli sta sfuggendo di mano e teme che, attendendo troppo, possa correre il rischio che qualcuno gli rompa il giocattolo?

Questo polverone è ancora più incomprensibile se si tiene conto che, votando con l’Italicum rimodellato dalla sentenza della Consulta, molto difficilmente si riuscirebbe ad ottenere una maggioranza netta e coesa, e si finirebbe così per gettare il Paese in una nuova stagione di instabilità. «Nei paesi civili si va alle elezioni a scadenza naturale e da noi manca ancora un anno. In Italia c’è stato un abuso del ricorso alle elezioni anticipate», ha sentenziato giustamente Napolitano. Per mandare a casa un Governo, aggiungo io, occorrono delle motivazioni serie ed importanti, che francamente oggi non esistono. In questo senso, il Renzi che imita il peggior istinto antipolitico di un Grillo o di un Salvini qualunque, ed invoca il voto al fine di evitare i vitalizi dei parlamentari (quegli stessi vitalizi che peraltro un anno fa lui stesso aveva proclamato di aver abolito) è uno spettacolo indegno, che trascina il PD sullo stesso piano di strumentale demagogia delle minoranze cialtrone.

La post-verità secondo Grillo

La post-verità secondo Grillo

Post-verità è la parola dell’anno secondo l’Oxford dictionary. L’utilizzo di questo termine è cresciuto del duemila per cento nel 2016 rispetto all’anno precedente, in virtù sopratutto della campagna referendaria inglese per l’uscita dall’UE e delle elezioni americane vinte da Trump. In entrambi i casi infatti notizie completamente false, spacciate per autentiche, sono state in grado di influenzare una parte dell’opinione pubblica e spostare di conseguenza il voto. Al di là delle veridicità, cio che conta quando si parla di post-truth è la capacità – come sostiene l’Oxford Dictionary – di catturare l’attuale spirito del tempo e di possedere il potenziale per restare culturalmente significativa nel lungo periodo. Il fenomeno, certo non nuovo, conosce oggi nella Rete il veicolo più capillare ed interessato, visto che chi diffonde bufale sul Web lo fa molto spesso per raccattare milioni di clic e di conseguenza gonfiare il proprio portafoglio.

La proposta di Grillo di istituire una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media, colpevoli – a suo dire – di offrire una visione distorta dell’azione politica del Movimento, sfrutta questo contesto per provare ad uscire da una situazione sempre più sfavorevole e di difficile gestione che lo vede coinvolto a Roma, ma non solo. E’ quindi certamente una strategia controffensiva, ma si tratta anche del riflesso di ciò che Grillo ha in mente debba essere la libera informazione: prona ed acritica verso il potere. Mario Calabresi oggi su La Repubblica risponde in modo molto lucido alla becera provocazione dell’ex comico: «Sarebbe sbagliato orchestrare una difesa d’ufficio del giornalismo italiano, senza dubbio non esente da pecche e peccati, ma nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza, per cui chiunque può concionare su vaccini, scie chimiche, chemioterapia o cellule staminali con la pretesa di avere in tasca una verità popolare, da nulla suffragata se non da un sentimento di massa. (…) A noi, però, preoccupa di più il danno che la propaganda grillina arreca al tessuto sociale, alla fiducia nell’informazione e il farsi strada dell’idea che il giornalismo sia establishment a cui contrapporre il popolo. Il nostro popolo è la comunità dei lettori, che è anche il nostro unico giudice. Il suo verdetto lo emette ogni mattina, decidendo se leggerci o no».