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Mese: Gennaio 2012

Woody Allen ed il jazz

Woody Allen ed il jazz

Sicuramente il jazz per Woody Allen è una delle cose per cui vale la pena di vivere. Infatti, eccetto le volte in cui è ricorso alla musica classica e lirica, e quelle – ancor più rare – in cui la colonna sonora è stata realizzata ad hoc, la maggior parte dei suoi film è contrappuntata da splendidi, vecchi brani jazz. Come Owen Wilson in Midnight in Paris anche Allen è attratto dai suoni di un glorioso passato. Per contro, in più di un’intervista ha dichiarato la sua avversione per tutta la musica più recente: «Poi vedi quattro tizi con le chitarre e diecimila persone con le fidanzate sulle spalle, tutti a torso nudo, musicisti e pubblico, i musicisti con le pitture di guerra in faccia, la musica amplificata all’inverosimile, le chitarre spaccate sul palco…, sono cose che non mi dicono niente. È evidente che sono rimasto indietro, ma mi sta bene così».

Le predilezioni del regista vanno alla musica dei primi anni del novecento di New Orleans [quella che ama anche eseguire quando si esibisce in veste di clarinettista con la propria band] e al repertorio jazz degli anni 30 e 40: quindi Duke Ellington e Louis Armstrong, Billie Holiday e Harry James, Glenn Miller e Benny Goodman, Irvin Berlin e Tommy Dorsey, fino a Django Reinhardt a cui è dedicato Accordi e Disaccordi. La musica nei suoi film non si limita ad una funzione ornamentale, ma ne costituisce l’essenza stessa. Serve sia per disegnare un immaginario ed una linea poetica, sia a fini narrativi, come elemento di una messa in scena che – in aggiunta ad immagini e dialoghi – si fonda proprio sull’aspetto sonoro per meglio presentare e descrivere personaggi e situazioni: «Se senti il bisogno di esprimerti e non possiedi alcun mezzo per farlo, la musica è un grosso aiuto: sostiene parecchie scene in modo efficace, può essere decodificata e dà significato a molte sequenze».

[audio:http://dl.dropbox.com/u/11584263/songbefore.mp3,http://dl.dropbox.com/u/11584263/misbehave.mp3,http://dl.dropbox.com/u/11584263/stardust.mp3 |titles=I’ve Heard That Song Before,Let’s Misbehave,Stardust|artists=Harry James,Irving Anderson,Louis Armstrong]
Da bamboccioni a sfigati

Da bamboccioni a sfigati

Michel Martone, 38 anni, è il viceministro al Lavoro e – per inciso – anche un figlio di papà. Il papà in questione è il giudice Antonio Martone,  cresciuto nello studio legale di Cesare Previti [si, proprio lui!], ex presidente dell’Authority scioperi, con “mani in pasta” un pò ovunque tanto da essere sentito qualche mese fa come “persona informata dei fatti” sulla loggia P3. Martone junior è stato consigliato a Monti dall’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e dall’ex responsabile della Funzione pubblica, Renato Brunetta [si, si, proprio loro!], con cui aveva collaborato nel precedente Governo.

Se ne evince che il viceministro è un uomo fortunato, talmente fortunato, da considerare con disprezzo i moltissimi che non condividono la sua stessa buona sorte. Eh si, perchè in questi giorni Martone è assurto [per così dire] agli onori della cronaca politica per aver affermato che «laurearsi dopo i 28 anni è da sfigati». Una dichiarazione che – se vogliamo – è ancora più colpevolmente superficiale e volgare di quella sui bamboccioni dell’ex ministro Padoa Schioppa, perchè pronunziata da una persona ancora giovane [ma evidentemente vecchia dentro], che si presume debba ben conoscere la realtà di tantissimi giovani che hanno avuto la sfiga [quella sì] di vivere in un Paese come l’Italia di inizio secolo. La frase di Martone è uno schiaffo in faccia alle migliaia di ragazzi che lavorano per pagarsi l’Università e che quindi si sottomettono ad un percorso di studi più lungo, e a tutti quelli che pur laureandosi sono costretti ad accettare lavori non all’altezza del titolo conseguito e delle proprie capacità [quando va bene], dato che il nostro sciagurato mercato del lavoro non fa sconti a nessuno. Che sia forse questa la vera “sfortuna” che un viceministro al Lavoro dovrebbe impegnarsi a risolvere?

I Classici del Cinema – Viale del Tramonto

I Classici del Cinema – Viale del Tramonto

Il più famoso incipit della storia del Cinema introduce da subito il clima inquietante di questo capolavoro di Billy Wilder: un cadavere galleggia nella piscina di una villa hollywoodiana, mentre la polizia e i giornalisti si precipitano sul luogo del delitto. La voce fuori campo è quella dello stesso protagonista, un William Holden perfetto, il quale ripercorre le vicende che hanno portato al suo stesso omicidio. Joe Gillis è un giovane sceneggiatore al verde che capita nella vecchia e decadente villa di una star del muto. Norma Desmond [Gloria Swanson], ormai dimenticata da tutti, vive soltanto dei ricordi di quando era una grande diva. Insieme a lei il suo fedele maggiordomo Max [Eric Von Stroheim], che si rivelerà essere anche uno dei suoi antichi registi ed il primo marito. Joe acconsente a scrivere per Norma la sceneggiatura per un nuovo film, che lei – incapace di accettare di esser stata messa da parte – immagina come la sua grande rentrée. La donna finisce per innamorarsi del giovane, che – accecato dalla sua ricchezza – ne diventa il mantenuto, l’amante ed infine la vittima.

La voce off in Viale del Tramonto [1950] è ben più che un sorprendente espediente narrativo: è soprattutto una “voce-fantasma”, come fantasmi sono la villa, i suoi abitanti e il film che stanno preparando. La pellicola vive fin da subito di un’atmosfera macabra, che Wilder – ben supportato in questo da Stroheim – sottolinea in ogni passaggio e che la colloca all’incrocio fra il noir e il gotico. E’ proprio di Stroheim l’idea di far scrivere all’ex marito della diva finte lettere di ammiratori, per lasciarle l’illusione d’essere ancora amata. Addirittura l’attore regista viennese suggerisce di girare una sequenza in cui lo si veda lavare la biancheria di lei – le mutandine – per rimarcare un rapporto di totale asservimento. Ma Wilder rifiuta la proposta: «Avevamo già abbastanza noie con la censura»Viale del Tramonto mescola in modo angosciante realtà e finzione. La Swanson era davvero un’attrice ormai caduta nell’oblio e Von Stroheim l’aveva realmente diretta nel film che lei fa proiettare nella villa. Tutto quanto riguarda lo specifico cinematografico: i discorsi di sceneggiature, la vita degli studios, persino il mitico cancello d’ingresso della Paramount. La protagonista vive prigioniera del proprio passato e di una folle nostalgia per il cinema muto: «Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo». Questi aspetti rendono il film di Wilder una denuncia impietosa dei meccanismi dello star system e il ritratto più oscuro e cinico della realtà hollywoodiana. Per tale motivo la sua uscita avvenne fra le polemiche. Louis B. Mayer accusò apertamente il regista: «Hai disonorato l’industria che ti ha dato da mangiare, dovresti essere incatramato, ricoperto di piume e sbattuto via da Hollywood».

Come può uno scoglio arginare il mare?

Come può uno scoglio arginare il mare?

C’è una notizia che da una settimana apre tutti i telegiornali e campeggia dalle prime pagine dei quotidiani: il naufragio della Costa Concordia. Certo, in un Paese in cui fino a pochi giorni fa ad affondare erano soltanto i barconi dei migranti, vedere colare a picco una nave da crociera con più di 4ooo passeggeri ha dell’incredibile. Ma ciò che più ha colpito l’immaginario nazionale è la figura del Comandante Schettino ed in particolare la sua esplosiva telefonata con il Capitano De Falco della Capitaneria di porto di Livorno. Quel «Torni a bordo, cazzo» rivolto da quest’ultimo al Comandante della Concordia – il quale attinge a piene mani al solito scusario dell’italietta berlusconiana per giustificare l’incidente prima e la sua repentina fuga poi – è diventato il manifesto di quegli italiani che vorrebbero chiudere per sempre con i tanti cialtroni che rivestono, senza meritarlo, un posto di comando. In un Paese in cui non è mai colpa tua, in cui splendide case vista Colosseo ti vengono intestate senza che tu ne sappia niente, e dove – se una nave affonda – è colpa di uno scoglio che stava lì ad insaputa tua e delle carte nautiche, uno come De Falco, che si è limitato a fare il proprio lavoro con coscienza e scrupolo, pare davvero un supereroe con mantello e calzamaglia.

E così, grazie allo sciagurato Schettino e alla fin troppo facile e schematica riconducibilità della sua figura ad un Italia priva di responsabilità e coraggio, una terribile tragedia è diventata un farsesco evento metaforico, un reality show a puntate sul Titanic nostrano che ha coinvolto media e social network. Naturalmente con tanto di stuoli di esperti che rilasciano pareri tecnici, plastici a Porta a Porta, gruppi su Facebook, rimandi a Love Boat e pruriginose interviste a ballerine moldave.

Il marcio della politica secondo Clooney

Il marcio della politica secondo Clooney

Durante le Idi di marzo del 44 a.C. Giulio Cesare venne pugnalato in Senato da chi considerava un amico. Da allora il mondo politico non è cambiato molto: corruzione, brama di potere, intrighi, tradimenti sono ancora all’ordine del giorno. Il nuovo film di George Clooney racconta la perdita dell’innocenza di un giovane addetto stampa in forza allo staff di uno dei candidati presidenziali democratici, il quale – coinvolto negli inganni e nelle nefandezze che pervadono l’ambiente – ne esce irrimediabilmente cambiato. Il percorso che lo porta dall’idealismo iniziale al cinismo e alla spregiudicatezza, è descritto dal regista senza moralismi, in modo asciutto ed elegante.

Le Idi di Marzo è un lavoro impeccabile, con un robusto impianto teatrale, dialoghi brillanti ed un cast all star, all’interno del quale George Clooney si ritaglia il ruolo del candidato. Ryan Gosling è un protagonista credibile e  Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Evan Rachel Wood e Marisa Tomei, degli splendidi comprimari. E’ un film in cui non ci sono eroi, nè personaggi positivi. Nessuno riesce a salvarsi da una deriva morale in cui lealtà ed integrità sono valori svuotati dal loro significato, e l’egoismo, la manipolazione e la sopraffazione costituiscono il vero motore propulsivo. La politica è una cosa sporca e chiunque voglia praticarla non può che sporcarvisi le mani. Un film che prende le mosse dal miglior cinema di impegno sociale degli Anni 70, pur immergendosi nella contemporaneità della politica americana ed in particolare nel clima di disillusione rispetto alla Presidenza Obama.

J.Edgar

J.Edgar

Difficilissimo condensare in due ore la vita di una figura così complessa e controversa come quella di J. Edgar Hoover. Il direttore dell’FBI che ha attraversato da protagonista 50 anni della recente storia americana, sotto ben 8 diverse presidenze. Clint Eastwood sceglie di prediligire gli aspetti privati alla dimensione pubblica del personaggio, finendo così per non dargli sufficiente spessore o perlomeno per affrontare con superficialità alcuni snodi che forse avrebbero avuto bisogno di un’altra sottolineatura. La narrazione, non sempre equilibrata, è ulteriormente appesantita da continui ed inutili salti temporali che finiscono col far perdere di vista il quadro generale.

In questo contesto, il film risulta a tratti freddo ed irrisolto, esattamente come il personaggio descritto. Un uomo potentissimo, eppure privo di una vita personale, succube di una madre autoritaria e represso da un’omosessualità mai accettata. A fronte dell’eccessivo materiale di utilizzare – si va dalla lotta contro gli anarchici e i comunisti, passando per la cattura di Dillinger, il rapimento Lindbergh, la rivoluzione tecnologica dell’FBI, i vari intrighi di potere, via via sino al pessimo rapporto con Bob Kennedy, l’attentato di Dallas, l’ossessione contro Martin Luther King e la presa del potere da parte di Richard Nixon – Eastwood riesce comunque a farsi apprezzare per il rigore della ricostruzione scenica e per la scelta di un eccellente cast. In particolare, Leonardo Di Caprio – che si prenota per una probabile vittoria ai prossimi Oscar – spesso sepolto sotto chili di trucco per apparire un credibile settantenne, ne è un protagonista efficace e convincente.

Votare secondo incoscienza

Votare secondo incoscienza

Poco fa la Camera si è nuovamente espressa, dopo un anno e mezzo, contro l’arresto del deputato del PdL e coordinatore del partito in Campania, Nicola Cosentino. Il risultato è stato possibile anche grazie ai voti della Lega, che – seppur spaccata al suo interno – si è ancora una volta sottomessa ai diktat di berlusconi. Certo fa piacere che gli uomini vicino a Maroni abbiano assunto una posizione contraria alla linea dettata da Bossi, resta soltanto da domandarsi come può  il Senatur pensare di continuare a tuonare contro la mafia del Sud, e poi opporsi ogni volta alle richieste della Magistratura? Di quale credibilità ritiene possa ancora godere il suo partito? Quando si viene chiamati a decidere su questioni importanti come questa, si dovrebbe farlo indipendentemente dall’opportunità del momento. L’autorizzazione a procedere nei confronti di un politico di spicco, su cui pesano gravissime accuse di collusione con organizzazioni criminali, non può certo essere negata od accordata sulla base di alleanze o convenienze partitiche.

Così, il tentativo dei “maroniani” di smarcarsi da berlusconi sulla questione della legalità non è riuscito. La Lega continua ad andare a traino del PdL, che si configura sempre più come il partito dell’impunità, accampando l’abusato teorema dei complotti bolscevichi ad opera della Magistratura o, in alternativa, la solita panzana del fumus persecutionis. La scorsa settimana si è persino spinto a mettere in dubbio l’opportunità di operazioni di verifica fiscale come quella di Cortina. Evidentemente anche gli evasori fiscali sono perseguitati dalla legge! Fino a quando la maggioranza parlamentere sarà in mano al Partito della Libertà e ad uomini come Cicchitto, che aveva minacciato di compromettere il quadro politico nel caso Cosentino fosse stato arrestato, sarà difficile per questo Paese uscire dalle sacche del berlusconismo.

I 65 anni di David Bowie

I 65 anni di David Bowie

Sorprende ed un pò immalinconisce che il simbolo vivente del mutamento perenne, del travestitismo, dell’irrequietezza, tutte caratteristiche associate alla giovinezza, domani compia 65 anni! David Bowie è stato tra i primissimi musicisti a concepire il rock come “arte globale”, aprendolo alle contaminazioni con il teatro, il mimo, la danza, il cinema e le arti visive in genere. In più di quarant’anni di carriera, è stato un fantastico interprete del proprio tempo, capace di fiutare le tendenze ed inventarsi una maschera personale per cavalcarle. In ambito musicale la sua impronta è stata fondamentale nell’evoluzione di generi disparati come il glam-rock, il punk, la new wave, il tecno-pop, il neo-soul, la dance, per stessa ammissione di molti dei loro esponenti di punta. Pochi anni fa un sondaggio realizzato dal settimanale inglese New Musical Express presso le maggiori rockstar del periodo, tra cui Bono, Thom Yorke e Madonna, lo ha consacrato “l’artista più influente del secolo”.

Nonostante che il suo ultimo disco risalga a 9 anni fa e che la sua attività si sia molto ridotta, complice un delicato intervento al cuore, la sua figura resta in qualche modo iconica. Musicista, produttore, attore di cinema e teatro, mimo, pittore, scultore, abile uomo d’affari: tutto questo e molto altro ancora è David Robert Jones, in arte David Bowie. Buon Compleanno!

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Il 2011 al Cinema

Il 2011 al Cinema

Per quanto mi riguarda, a differenza degli anni precedenti, il 2011 non ha prodotto alcun capolavoro. Però ci son stati diversi piccoli/grandi gioielli [alcuni dei quali non compresi da tutti] che hanno costellato le mie personali visioni negli ultimi 12 mesi. Chissà se è un caso che 3 dei 5 registi in cima alla mia top five siano ultrasettantacinquenni. E’ comunque un fatto che Woody Allen, Clint Eastwood e Roman Polanski continuino a realizzare pellicole di pregevole fattura a dispetto dell’età e delle lunghissime carriere. In quest’ottica è da rimarcare anche la formidabile prova dell’ottantaseienne Michel Piccoli che contribuisce non poco al successo e a alla qualità dell’ultimo lavoro di Nanni Moretti. Invece J.J. Abrams ha solo 45 anni, eppure dirige il suo film più riuscito rielaborando a proprio modo atmosfere, tematiche e situazioni tipiche di pellicole di 30 anni fa. 

E’ forse il segno che il Cinema manchi di nuova linfa vitale? Non credo, anche se la pletora di sceneggiature prelevate dal mondo del fumetto o da quello dei videogiochi, di remake, prequel, sequel e di saghe composte da almeno 4 o 5 episodi, denota sicuramente scarsa propensione [o coraggio] a proporre prodotti non meno che sicuri dal punto di vista commerciale. Dimenticando così che il pubblico non va soltanto inseguito, ma anche educato.