Non è Chance il giardiniere

Non è Chance il giardiniere

Nel 1990 Sergio Mattarella si dimise da ministro della Pubblica Istruzione in segno di protesta contro l’approvazione della legge Mammì, che – unica al mondo – consentiva ad uno stesso soggetto privato di detenere più di due reti televisive nazionali. Fu tra i primi ad intuire il gravissimo azzardo di una legge che di fatto spianò la strada all’ascesa prima economica e poi politica di silvio berlusconi. Qualche anno dopo, in qualità di dirigente del Partito Popolare, definì «un incubo irrazionale» l’ingresso di Forza Italia nel PPE. Ecco perchè il Cavaliere, che è uomo che non dimentica gli sgarbi ricevuti, non ha gradito la sua candidatura al Quirinale. Chi fra i Cinque Stelle in questi giorni ha criticato la proposta di Renzi,  contesta al neo Presidente quantomeno di non essere stato sufficientemente tempestivo – come Ministro della Difesa – nel denunciare l’estrema pericolosità dell’uso dell’uranio impoverito durante la Guerra del Golfo, come queste dichiarazioni di Occhetto rilasciate 15 anni fa e rivolte al Governo D’Alema fanno intendere. Ma al di là delle speculazioni dell’ultim’ora di cui certe formazioni politiche non sanno proprio fare a meno, Mattarella – autentico coniglio dal cilindro per il premier – è persona degna di considerazione. Bene ha fatto Renzi a seguire il consiglio di Bersani e a non puntare su Chance il giardiniere, ma su una figura di alto profilo,  ferma ed indipendente, che sappia difendere la Costituzione e la legalità, e sia libero da logiche di partito. 

Rinunciando al suo importante dicastero, 25 anni fa, Sergio Mattarella dimostrò un attaccamento non comune ai propri principi ed ideali. Il suo percorso è quello di un uomo delle Istituzioni schivo e discreto, ma tutt’altro che pavido e certo non manovrabile da alcuno, in grado di interpretare il suo ruolo in autonomia e con misura. Il nuovo Presidente ha sempre fatto dell’impegno nella lotta contro la mafia e di un lavoro rigoroso al Parlamento, al Governo e alla Corte Costituzionale la sua cifra caratteristica. Oggi riesce nella titanica impresa di mettere d’accordo quasi tutti: da Vendola ad Alfano, da Civati a Casini, dai fittiani ai fuorisciti grillini. Fra polemiche, malumori, strappi e dimissioni, gli altri è bene che se ne facciano una ragione.

Non chiamatelo più democratico

Non chiamatelo più democratico

Uno dei sindaci migliori che Genova abbia mai avuto è stato Adriano Sansa, il quale riguardo alla bruttissima vicenda delle primarie liguri ha rilasciato una dichiarazione che più di ogni altra risulta condivisibile.  Anche questa riflessione di Michele Serra centra con lucidità la questione: «Se il centrodestra, mediante primarie, dovesse scegliere tra Hitler e Cicchitto, spererei che vincesse Cicchitto, o perlomeno che non vincesse Hitler. Ma non mi sognerei mai di andare a votare, per una ragione così ovvia che quasi imbarazza doverla ripetere: è intrusivo e sleale andare a decidere cose d’altri in casa d’altri (…). Per ragioni poco comprensibili, e comunque mai spiegate, questa banale regola di rispetto è saltata per le primarie del Pd, che in Liguria hanno vissuto l’ennesima pagina opaca (eufemismo). Che Sergio Cofferati parli con l’acredine dello sconfitto non leva una sola virgola alla sensatezza delle cose che ha dichiarato annunciando il suo addio al Pd. La nuova classe dirigente democratica può legittimamente pensare che perdere uno stagionato dirigente della vecchia sinistra (tra l’altro europarlamentare e dunque non sull’orlo della disoccupazione) non sia poi così grave. Ma gravi, molto gravi, sono le accuse e i sospetti che gravano su quelle primarie, e su altre precedenti: non dunque su Cofferati, ma su chi rimane. È sconcertante la sbrigativa disinvoltura con la quale il nuovo Pd parla di se stesso. Non dei suoi avversari: di se stesso».

Per tali ragioni il silenzio colpevole del PD in merito all’inquinamento del voto ligure (altrove le primarie vennero invalidate per molto meno), e soprattutto le affermazioni della Serracchiani (che ormai si limita ad essere per Renzi ciò che la Santanchè è sempre stata per berlusconi) che mirano a svilire la decisione di Sergio Cofferati, riducendola ad una volgare questione di sconfitta, sono semplicemente vergognose. Assolutamente inaccettabili sia per un personaggio come “il Cinese” che ha una storia personale e politica che meriterebbe un rispetto diverso, sia per molti fra quelli che hanno votato PD e che oramai non si riconoscono più in un partito che ha smesso di fare della giustizia, della trasparenza, della correttezza, del pluralismo, della tolleranza verso chi la pensa diversamente (in una parola sola: della democrazia) valori da perseguire. E un partito che tace di fronte al malaffare e che non è più garante di uguaglianza per tutti non può più essere chiamato democratico.

Je suis Charlie

Je suis Charlie

In queste ore se ne sono sentite tante. C’è persino chi ha sostenuto – e neppure l’ultimo degli scribacchini di Roccasecca, ma  il principale quotidiano economico-finanziario del Regno Unito – che Charlie Hebdo se l’è sostanzialmente cercata perchè da anni eccessivamente provocatorio e irrisorio verso i musulmani. Nel suo editoriale di ieri il Financial Times arriva addirittura a definire “stupidità editoriale” l’atteggiamento del settimanale francese nei confronti dell’Islam, sottolineando che “anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione”. Come se la satira, che proprio nell’irriverenza e nella sfrontatezza trova le sue armi più efficaci, andasse normalizzata in nome di una non meglio definita sensibilità religiosa. Ma chi ammazza senza pietà delle persone perchè responsabili di aver disegnato delle vignette non lo fa mai per difendere il proprio credo, ma semplicemente perchè è espressione di una barbarie cieca ed infame. All’irriverenza la civiltà può rispondere – semmai – con lo sdegno, o ricorrendo alla Magistratura se lo si ritiene necessario. Ma è l’inciviltà che usa i kalashnikov e le bombe.

E non credo nemmeno che si possa definire stupido chi fa della satira. Charlie Hebdo aveva già subito diversi “avvertimenti”. Nel 2011 la sua sede era stata distrutta da un incendio provocato da una bomba molotov. Eppure non si era lasciato intimidire perchè credeva in ciò che faceva. Credeva cioè che l’ironia ed il diritto a ridere di tutto rappresentano proprio quella libertà di pensiero e di opinione su cui si fondano le democrazie occidentali e che il fanatismo mira a sopprimere, perchè inconciliabile con il regime sanguinario, oppressivo, illiberale ed integralista che vorrebbe imporre ovunque. Un regime che uccide in nome di Dio e che è talmente abbietto ed ottuso da non comprendere che ciò equivale a fare di Dio un assassino. Trucidare dei cittadini inermi gridando “Allah è grande” è sacrilego come nessuna vignetta satirica potrà mai essere.

Magic in the Moonlight

Magic in the Moonlight

Al centro della storia di questo nuovo lavoro di Woody Allen c’è un prestigiatore di fama internazionale chiamato da un amico e collega a smascherare una sedicente medium. Ancora una volta la trama serve solo da pretesto al regista newyorchese per mettere in scena se stesso. E’ facilissimo infatti trovare nei panni del personaggio interpretato da Colin Firth gli aspetti più tipicamente alleniani. Siamo di nuovo dalle parti di un artista affermato, ma depresso e disincantato nei confronti della vita. Razionale fino al cinismo, brillante ancorchè misantropo, che si imbatte nel’amore di una donna molto più giovane di lui. Lo sviluppo della storia è prevedibile. La sceneggiatura è priva di guizzi, le battute fulminanti latitano e i due protagonisti non raggiunguno mai un alto livello di empatia con il pubblico.

Il tema è quello trattato – in modo migliore – già molte altre volte: «l’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira». Sono infatti coloro che accettano di vivere nell’illusione, gli unici capaci di godersi l’esistenza anche solo per un istante. La vita è miseria e solitudine, ma se si cede al sogno, alla magia, alla speranza, allora si può persino trovare la felicità. La conclusione è quella di sempre: l’amore – anche se è un sentimento effimero – resta in cima alla famosa lista di cose per cui vale la pena vivere. In fondo non importa se sia vero oppure no, quel che conta è “che funzioni”. Un Allen sicuramente minore, anche se – vale la pena ricordarlo – comunque al di sopra di tanti film di plastica, superficiali e fracassoni, di cui sono piene oggigiorno le sale cinematografiche.

Ed intanto il M5S sprofonda nel ridicolo

Ed intanto il M5S sprofonda nel ridicolo

Le prime avvisaglie c’erano state alcune settimane fa quando un esponente pentastellato decise di denunciare il Patto del Nazareno, perchè passabile di cospirazione politica (SIC!). E’ la prima volta nella storia che un ordinario accordo tra soggetti politici attorno alle riforme da attuare nel Paese finisce in tribunale, come fosse una cena con le Olgettine. Renzi e berlusconi si sono dati segretamente appuntamento come oscuri carbonari decisi a sovvertire l’ordine nazionale a suon di soglie di sbarramento e fantomatici premi di maggioranza? Tutto è possibile. Ora però ci aspettiamo che dal M5S qualcuno ci dica che Elvis è ancora vivo, che l’11 settembre è opera di Oprah Winfrey e che Gasparri è a capo della Spectre.

Ma è all’indomani del crollo alle elezioni regionali (che Grillo aveva annunciato di stravincere, e che invece hanno visto il Movimento dissipare centinaia di migliaia di voti e cedere lo scettro del voto di protesta alla Lega di Salvini), che la farsa raggiunge toni degni del miglior Bombolo. I media rivolgono le proprie attenzioni al presenzialista in felpa di ordinanza del Carroccio e non dedicano più alcun editoriale alla setta dei vaffanculo stellari? Ecco allora che Grillo risponde prontamente. Oltre ad espellere un paio di parlamentari che male non fa mai – naturalmente col solito codazzo di polemiche e strumentali giustificazioni – si inventa l’idea del direttorio. Pesca cinque fra le personalità più rappresentative dei suoi e li eleva a ruolo di “vice”. Il Movimento, nato come una comunità di uomini puri e votati al bene, che si organizza in modo paritario per soppiantare un’altra comunità di uomini votati al male, al ladrocinio e alla sopraffazione, costruisce la propria gerarchia piramidale, con nomi – ovviamente – calati dall’alto. Poco male: uno non varrà più uno, ma cinque. Con l’artimetica si risolve sempre tutto. Del resto, quando si può contare su eccellenze come Carlo Sibilia, sarebbe un delitto non sfruttarle appieno. Il deputato 28enne è a tutto diritto una delle 5 stelle più luminose del firmamento grillino. Uno dei 5 più uguali fra una moltitudine di uguali. Uomo dotato di rara intelligenza, finissimo acume e lungimirante visione politica, si avvia a prendere iniziative fondamentali per il futuro del suo Movimento e dell’Italia tutta. Colui che ha affermato che lo sbarco sulla Luna non è mai avvenuto e che ha proposto di legalizzare le unioni di gruppo e i matrimoni tra specie diverse (SIC!), darà tutta una serie di nuovi significati al termine statista. Stiamone certi!

Seduttori televisivi

Seduttori televisivi

D’accordo. Si tratta di consultazioni locali che riguardano soltanto due regioni. Però comunque alcuni dati emersi da queste elezioni regionali sono talmente eclatanti da risultare indicativi di una tendenza che potrebbe travalicare i confini di Emilia Romagna e Calabria. Su di tutti lo spaventoso calo del numero di coloro che si sono recati alle urne, che vale in particolare per le tre formazioni maggiori e che rende il “Partito dell’astensione” di gran lunga il primo partito. Quanto al PD, che pur vince in entrambe le regioni, è difficile non imputare questo fenomeno alla  disillusione del popolo di sinistra, quello che in altre parole non accetta che si parli ai sindacati con un linguaggio alla Brunetta. I democratici emiliani in soli sei mesi, dalle europee di maggio, perdono quasi due terzi dei voti: da 1,2 milioni a circa 500mila. Un’emorragia notevolissima, una scissione silenziosa di tanti “compagni” che hanno preferito restare a casa. Affermare che l’astensionismo è secondario, come ha fatto oggi il Presidente del Consiglio, è miope e stupido e non fa onore a chi è chiamato a rappresentare le istituzioni. Sorte analoga per il M5S che raccoglie solo il 13% in Emilia-Romagna e poco più del 4% in Calabria, e per FI che in Emilia si ferma ad un misero 10%. L’unico autentico vincitore è Matteo Salvini che in Emilia conquista il doppio del consenso di berlusconi e che in questo momento appare come l’oppositore più in vista del Governo, strappando a Grillo il voto di protesta e al Cavaliere l’egemonia a destra.

Ancora una volta l’Italia si dimostra un Paese dove la televisione gioca un ruolo centrale in campagna elettorale. L’importante è apparire sempre e comunque, proponendo naturalmente un pò di sano populismo e tanti slogan ad effetto che alla TV nostrana funzionano sempre.  L’onnipresente Salvini piace perchè parla come mangia. E’ uno di “noi”. Veste con la felpa e appare come uno di quelli che puoi trovare al mercato, nella metro o al bar sottocasa. Coetaneo generazionale di Matteo Renzi, è come lui cresciuto a pane e Fininvest, tanto che entrambi già in gioventù mostrano una spiccata sensibilità per il potere ammaliatore del tubo catodico, partecipando ad alcuni quiz televisivi del Biscione, alla corte di un Bongiorno o di un Mengacci. Vent’anni dopo, alla guida delle rispettive formazioni politiche, monipolizzano i talk show, stando sempre molto attenti a dire ciò che la gente vuol sentirsi dire, utilizzando un linguaggio all’insegna della semplicità, dell’ovvietà e della retorica. Più sarcastico e tendente alla facile iperbole quello del premier, colorato con molti temini giovanili, nuovi o presi in prestito dagli inglesi, adatti ad essere ripresi dai mass media; più spiccio ed essenziale quello del leader leghista, mai superficiale, all’apparenza sempre appassionato ed in grado di toccare le corde giuste. Da noi il consenso elettorale va di pari passo con gli indici d’ascolto, quindi se si è in grado di conquistare l’Auditel, si è capaci di tutto, persino di portare il PD al 40% dei voti o di resuscitare un partito moribondo come la Lega.

Matteo, non stare sereno

Matteo, non stare sereno

Il 9 dicembre 2013, dopo le primarie del PD, scrivevo in un mio post: “Renzi ha vinto nettamente. A lui il difficilissimo compito di rinnovare il partito, nel rispetto però delle diverse identità e culture che lo attraversano. Si collabori, vincitori e vinti, ci si confronti senza imporre le proprie posizioni in modo pregiudizievole.” Lo scorso 21 gennaio, all’indomani del Patto del Nazareno, ribadivo in un altro post: “Il PD ha diverse sensibilità che vanno armonizzate nel rispetto delle opinioni altrui. In questo ambito deve muoversi il segretario che non può ricercare la profonda sintonia con berlusconi, senza prima impegnarsi per costruirla al proprio interno.” E’ passato quasi un anno da allora e oggi appare evidente come l’obiettivo di costruire un grande partito che basi la sua forza sul pluralismo e sul rispetto delle posizioni divergenti è miseramente fallito… ammesso e non concesso che tale obiettivo sia mai esistito! Il nuovo segretario infatti ha fin da subito portato avanti una politica particolarmente aggressiva nei riguardi di chi, all’interno del PD, assumeva posizioni critiche e dissonanti, dimostrando chiaramente l’intenzione di modellare il partito secondo i suoi desiderata, portando all’incasso il grande consenso personale.
 
Non stupisce allora che l’ex sindaco di Firenze nel suo intervento di domenica abbia riservato le note polemiche più sferzanti e denigratorie non già a berlusconi o Grillo, ma alla minoranza del suo partito che ha sfilato a Roma insieme alla CGIL. Dal palco della Leopolda, in compagnia di imprenditori e finanzieri à la page, il Presidente del Consiglio ha preferito usare toni sarcastici e canzonatori nei confronti dei tantissimi giovani, operai, pensionati e disoccupati che hanno manifestato contro il Jobs Act, ricordando a molti alcune analoghe dichiarazioni di berlusconi. C’è chi ritiene –  e forse non a torto – che la reale volontà del segretario sia fare piazza pulita del dissenso interno, percepito come il vero nemico da abbattere [vista peraltro la crisi che attraversa sia la destra che il M5S], al fine di ottenere un partito compatto intorno al  pensiero unico del leader. Un dato è indiscutibile. Anche ammesso che non sia sollecitata, la scissione non è affatto temuta da Renzi, il quale è convinto che ciò gli possa assicurare un più largo consenso presso l’elettorato di centrodestra – vera direzione verso cui la politica del Governo [e del PdR] sta andando –  rispetto a quello che che perderebbe con una rottura a sinistra. «Io non ho paura che nasca a sinistra qualcosa di diverso», ha affermato domenica. Considerata l’enorme partecipazione alla manifestazione romana, fossi in lui non starei poi cosi tanto sereno.
Il PdR

Il PdR

Sinceramente non mi sarei mai aspettato che autorevoli esponenti del PD arrivassero ad accusare la dirigenza di applicare il “Metodo Boffo” nei confronti di chi dissente dalla linea del Segretario. Se persone serie e per bene come Bersani, sempre abituate a misurare le parole, operano una denuncia del genere – peraltro tutt’altro che isolata presso la minoranza del partito – significa che il momento è delicatissimo. Il premier ha condotto il PD ad un successo straordinario, annichilendo gli avversari politici [un sondaggio dei giorni scorsi, dà il PD ad oltre il 40%, FI al 13,3%, NCD al 2% e la Lega all’8%], ma per farlo ha snaturato il partito, trasformandolo in una formazione neocentrista molto più sensibile ed attenta alla propria destra – al fine di soffiare gli ultimi elettori rimasti a berlusconi – piuttosto che alle istanze della sinistra. Un partito leaderista in cui il pluralismo non viene più percepito come una risorsa, ma come un fastidio da eliminare con qualsiasi mezzo. La dirigenza è composta da tanti pretoriani monocolore [ed incolore] che da una parte calano fendenti a chiunque osi esprimere un benchè minimo dissenso [specie se si tratta di colleghi di partito], e dall’altra glorificano ed incensano l’azione del Governo, reiterando fino allo sfinimento fisico [ma quanto è diventata triste la Serracchiani?] uno a caso dei tanti slogan di facile presa del proprio condottiero. Vent’anni di berlusconismo ci hanno abituato a partiti che legano la propria identità a quella del leader e che vivono della sua capacità di conquistare i mezzi di comunicazione. Prova ne è che a fronte dei tantissimi elettori, il PD perde ben 400.000 iscritti in un anno! La struttura viene meno: il PD lascia il passo al PdR. Ciò che importa è che ci sia il trascinatore, l’uomo solo al comando.
 
E se il modello di partito che ha in mente l’ex sindaco di Firenze è quello già sperimentato da Forza Italia in questi ultimi 20 anni, anche i temi politici si fanno sempre più pericolosamente vicini a quelli della destra. Il Presidente del Consiglio si fa infatti promotore di una battaglia politica sull’articolo 18 che qualche anno prima fu di berlusconi e per contrastare la quale il PD aveva portato in piazza milioni di persone, e questo dà la misura di quanto le cose siano cambiate [in peggio, naturalmente]. Detto per inciso: davvero la drammatica situazione in cui versa il mercato del lavoro in Italia [disoccupazione giovanile al 44,2%] non meriterebbe misure ed iniziative più necessarie ed urgenti di questa? Davvero si pensa di risolvere annosi problemi, riducendo dei diritti piuttosto che estendendo quelli esistenti? Sul serio si ritiene che l’abolizione dell’articolo 18 porterà nuovi posti di lavoro? Le uniche piccolissime soddisfazioni che vedo in una situazione assolutamente desolante, è che anche l’informazione mainstream che fino ad ora aveva vissuto una luna di miele col premier, inizia a denunciarne contraddizioni, limiti e problemi. Meglio tardi che mai.
Amico fragile

Amico fragile

«Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita». Così il professor Keating ammoniva i propri allievi ne L’Attimo Fuggente. A Robin Williams lo scorso 11 agosto l’esistenza deve essere sembrata così disperatamente priva di bellezza ed amore da decidere di terminare i propri giorni a 63 anni, appeso tra l’anta dell’armadio e lo stipite della porta con una cintura stretta attorno al collo. Solo, come nessuno dovrebbe mai essere. Williams è stato il più grande comico americano degli ultimi 30 anni. Aveva un talento istintivo ed istrionico, travolgente e particolarissimo, al di fuori degli schemi e mai piegato a maniera o metodo. Non a caso alcuni dei suoi ruoli più convincenti sono quelli di personaggi che lottano contro il conformismo e le convenzioni del sistema, mai disposti a seguire regole imposte da altri, fossero quelle dell’esercito (Good Mornig Vietnam), di un rigoroso college (L’Attimo Fuggente), di una facoltà di medicina (Patch Adams), di un ospedale (Risvegli) o persino quelle classiche di una famiglia (Mrs. Doubtfire). Ma l’attore era molto di più di un semplice comedian, visto che grazie a sensibilità e versatilità non comuni aveva interpretato diversi ruoli drammatici con grandissima credibilità ed efficacia. Per motivi economici, negli anni più recenti aveva partecipato a non pochi film mediocri, deprezzando la sua figura professionale. Anche per questa ragione, specie nell’ultima parte della sua carriera, il suo enorme talento non è stato sfruttato come avrebbe meritato. Restano comunque una manciata di film memorabili che hanno accompagnato e segnato più di una generazione.
 
Fuori da ogni retorica, oltre il vulcanico artista se ne va un amico, un fratello maggiore, una figura paterna in alcuni casi. Una guida che ci ha regalato tante risate, ci ha fatto sognare, ci ha spinto a riflettere e ci ha aiutato a crescere. Sicuramente più fragile di quanto non potessimo sospettare, ma proprio per questo motivo ancor più vicino a noi. Oh Capitano, mio Capitano!
 
Il senza vergogna

Il senza vergogna

«Le riforme dovevano essere affrontate diversamente, seguendo le procedure previste (senza perdere sei mesi a tentare di approvare una deroga all’art. 138, poi riposta in un cassetto senza spiegare perché né chiedere scusa ai cittadini), che indicano una certa lentezza. Che non significa perdere tempo (come avviene con continue accelerazioni e battute d’arresto, come quella che c’è stata sulla legge elettorale), ma impiegarlo per riflettere e valutare attentamente. Più che sui tempi bisognerebbe concentrarci sulle scelte, che dovrebbero essere compiute con il reale apporto di tutti. Per essere più precisi, l’attuale riforma costituzionale, al contrario di quanto si dica, è stata discussa molto poco e assai male.  Ma si è andati avanti come se nulla fosse, alzando ancora il livello dello scontro, fino a sostituire nella stessa Commissione i componenti che rispetto al testo governativo avevano mosso alcune critiche di fondo (pur sostenendone altri aspetti, a partire dalla necessità di differenziare le due Camere). Ora, non so più come dirlo, l’errore consiste nel non avere saputo valorizzare il confronto in Commissione, ma più grave sarebbe continuare ad alzare i toni e a irrigidire lo scontro, con minacce di contingentamenti, ghigliottine e lavori forzati (e quindi mal riflettuti), per chiudere con tempi la necessità del cui rispetto non pare avere alcun concreto riscontro. In realtà, le riforme costituzionali – la cui lunghezza è costituzionalmente imposta – possono tranquillamente procedere nel corso della legislatura, facendo tesoro di tutti i contributi che fino ad ora – lo ripetiamo – non hanno potuto trovare spazio in alcuna sede».
 
«Trovo francamente sconcertante che si possa definire ricatto l’esercizio legittimo delle prerogative che sono riconosciute all’opposizione dai regolamenti parlamentari. Fare ostruzionismo non significa essere ricattatori. Certamente non siamo ricattabili. Vogliamo proporre al Governo la possibilità di ragionare seriamente su questioni come il Senato elettivo. Noi abbiamo il diritto di interloquire, quando si tratta di riforme della Costituzione, che non possono essere ridotte al rango di una puntata di Masterchef, dove ci sono alcuni minuti per poter cucinare la ricetta del cambiamento. La Costituzione è la legge fondamentale che tiene in piedi una società e uno Stato. Per cui abbia pazienza il ministro Boschi, impari un pò il rispetto nei confronti delle Istituzioni, delle opposizioni e del Paese. Noi vogliamo sapere se le istituzioni di domani consentiranno ai soggetti sociali che per esempio oggi hanno protestato davanti a Montecitorio, a partire da una condizione di disagio e di esclusione, di poter esprimere le proprie ragioni. Se poi  si vuole un Parlamento addomesticato, se si vogliono istituzioni che sono una specie di corolla floreale attorno al sovrano, allora lo si dica. Ma quello noi limpidamente non lo accetteremo.» 
 
Ho riportato stralci da due post, il primo a firma Civati [leggere qui e sopratutto qui], il secondo Vendola [leggere qui e qui]. Le posizioni di entrambi sono quelle che dovrebbe avere il leader di un vero partito di Centro Sinistra, che ha a cuore il bene del Paese, la volontà dei cittadini ed il rispetto delle minoranze. Così non è purtroppo. Ed è sotto l’occhio di tutti [tranne di quelli che non vogliono vedere, naturalmente]. Invocare la “ghigliottina” per delle riforme istituzionali è una delle cose più antidemocratiche che si possa avere in mente. Fornire una prova muscolare, miope ed arrogante, che sta a metà fra il peggior craxi ed un berlusconi qualunque, sul terreno di riforme che devono costituire l’ossatura dello Stato e che riguardano tutti, senza distinzioni alcune fra destra e sinistra, maggioranza e opposizione, politici e cittadini comuni [e che non possono essere oggetto di protagonismi e brame personali] è spettacolo esecrabile. Mai mi sarei aspettato che potesse essere messo in scena da un Presidente del Consiglio, segretario del Partito Democratico, che oramai di democratico non ha più nulla. Che vergogna!