I Classici del Cinema – Oltre il Giardino

I Classici del Cinema – Oltre il Giardino

Quando nel 1971 il romanzo Oltre il Giardino di Jerzy Kosinski viene pubblicato, Peter Sellers ne è letteralmente folgorato, tanto da inviare al suo autore un telegramma che dice «Disponibile nel mio giardino o fuori» con a fianco il numero di telefono. Il libro, una graffiante satira contro il potere politico fortemente condizionato dal fascino seduttivo della televisione, racconta le gesta di Chance, un cinquantenne analfabeta e ritardato che non è mai uscito fuori dalla villa di cui curava il giardino. La morte del suo vecchio padrone lo porta in mezzo alla strada, in un mondo che conosce solo attraverso i programmi televisivi. Un banale incidente lo mette in contatto con un anziano Senatore. Il candore di Chance viene scambiato per saggezza profonda ed alcune sue considerazioni casuali interpretate come acute riflessioni sulla condizione umana. Di equivoco in equivoco diventa una celebrità nazionale e si ritrova ad un passo dalla candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti.

Sellers insegue il sogno di portare sul grande schermo il romanzo di Kosinski per ben 8 anni, fino a quando – nel 1979 – il progetto si concretizza. La sceneggiatura è affidata allo stesso scrittore, mentre la regia viene curata da Hal Ashby, uno dei cineasti più rappresentativi ed intelligenti della New Hollywod. In mani altrui Oltre il Giardino avrebbe corso il rischio di trasformarsi in una parabola sciocca o in fiacca critica della credulità umana. Ma la sapiente e misurata direzione di Ashby, con la sua atmosfera tranquilla e crepuscolare, e l’immensa performance di Peter Sellers costituiscono l’innervatura di un lavoro delicatissimo, surreale e poetico insieme, connotato da una soave leggerezza che sa farsi sottile metafora di un mondo che – avendo smarrito i propri riferimenti culturali – non sa più distinguere il falso dal vero, o l’ignoranza dalla sapienza. Impossibile immaginare qualcun altro nei panni di Chance. Ad un personaggio che ha amato moltissimo, Sellers regala la sua interpretazione più memorabile. Giocando di sottrazione, l’attore inglese diventa una maschera compassata, apparentemente inespressiva, folle e lunare eppure credibilissima.

Con grandi “se” e grandi “ma”

Con grandi “se” e grandi “ma”

I risultati di queste recenti elezioni stanno convincendomi che Bersani sta all’acume politico, quanto l’orso Yoghi al Nobel per la Fisica Nucleare. Come è possibile, infatti, etichettare quanto uscito dalle urne come «una vittoria senza se e senza ma»? Non mi riferisco naturalmente soltanto alla discutibilissima ed urticante scelta lessicale di utilizzare una formula come “senza se e senza ma”, che è talmente logora da far apparire la prostata di Silvio come ancora incellophanata. Qui oltre la forma [che comunque in politica è anche sostanza] c’è molto peggio. Cè infatti l’incapacità di leggere gli umori della gente comune, che dappertutto vanno tranne nella direzione di premiare il PD.

Volendo essere cattivi, si può tranquillamente sostenere che il PD non ha vinto un bel nulla: sono gli altri ad aver perso. Cedendo ad una lettura più condiscendente verso il partito di Bersani, si può arrivare ad affermare che la vittoria dei democratici ha dei “se” e dei “ma” grossi come case. Ma oltre questo non si può certo andare! L’inossidabile dirigenza dovrebbe in questo senso ascoltare le opinioni dei propri rappresentanti più giovani. La Serracchiani ad esempio dichiara «Parma offusca ogni altra vittoria». Beppe Civati ricorda che se il PD non ha ancora fatto le primarie è solo perchè Bersani ha paura di perderle. Matteo Renzi incalza «Il Pd ha vinto la sfida dei numeri ma non ha convinto nella sfida politica. Se Bersani e i suoi colleghi segretari di partito si rendono conto che la somma di astenuti, grillini e outsider rende i partiti, tutti insieme, minoranza nel Paese, allora abbiano il coraggio di alcuni cambiamenti subito». Il centrodestra si riorganizzerà. La discesa in campo di Montezemolo è sempre più sicura. Il Movimento 5 Stelle è il secondo partito del Paese. Se il PD vuole vincere le prossime elezioni deve dare chiarissimi segnali di discontinuità rispetto al poco o nulla fatto sinora.

Monti fra corruzione interna e crisi internazionale

Monti fra corruzione interna e crisi internazionale

Nei giorni in cui l‘Europa conosce la sua crisi più dirompente e da più parti si inizia a considerare come imminente l’uscita della Grecia dall’Euro, il Parlamento italiano si spacca intorno al decreto anticorruzione. Un contrasto assai stridente che getta l’ennesima sconfortante luce sul senso di responsabilità della nostra classe politica e del PdL in particolare. Il partito di berlusconi infatti è fortemente contrario all’inasprimento delle pene per il reato di corruzione [chissà poi perchè], e per questo motivo non esita a mettere il Governo in grande difficoltà, proprio nel momento in cui invece dovrebbe distinguersi in ambito europeo per compattezza, forza e credibilità.

La spaventosa situazione della Grecia, esacerbata dalla politica di ferreo rigore impostale dalla Germania – unico Paese europeo il cui PIL è in costante crescita – è una bomba prossima ad esplodere. La sua possibile uscita dall’eurozona, infatti, potrebbe portare ad un “effetto domino” che vedrebbe l’Italia come una delle prossime vittime. La Merkel sta conducendo tutti gli altri Paesi europei verso un baratro che sarà possibile evitare soltanto se ci si libererà dal giogo tedesco. Ed in questo, Monti e Hollande potranno sicuramente giocare un ruolo di primissimo piano.

Grillusconi!

Grillusconi!

Le elezioni comunali di domenica ci consegnano uno scenario politico del tutto rinnovato. Il PdL evapora letteralmente e la Lega subisce una sonora batosta. Il PD tiene, ma non trae alcun beneficio dalla clamorosa debacle del centrodestra. Segno inequivocabile che se Bersani ha intenzione di vincere le prossime politiche deve inventarsi  qualcosa di diverso rispetto a quanto fatto sinora. Come ad esempio stringere una salda alleanza a sinistra. Dove infatti i democratici si son presentati insieme a SeL e/o IdV hanno sempre vinto. Ma Fassino, intervistato l’altra sera a Ballarò, ha dato l’impressione che l’unione con Vendola e Di Pietro sia tutt’altro che scontata.

Scontato invece è che l’unico a guadagnare da questa situazione sia stato il Movimento 5 Stelle. A fronte di una crisi economica internazionale ed un forte disagio dei nostri partiti tradizionali, il voto si è radicalizzato e – come già successo in altri Paesi europei – si è premiato un partito di rottura. Il punto è che il movimento di Grillo rompe prima di tutto con la democrazia. Preoccupanti infatti sono i numerosi aspetti che il comico genovese condivide con l’ex premier. Grillo come berlusconi rifugge da qualsiasi confronto pubblico, non ama le interviste e le poche che concede sono monologhi privi di un vero contradditorio. Come berlusconi ed i suoi media, dipinge i politici come tutti uguali e punta esclusivamente alla pancia della gente. Come il PdL, il Movimento 5 Stelle è emanazione diretta della personalità del suo creatore ed è talmente gerarchizzato che ogni voce in conflitto con quella del leader viene spenta autoritariamente. Grillo, ancora come l’ex premier, ha fatto di un strumento di comunicazione di massa la persuasiva gran cassa del suo impegno politico, la Rete per lui, la TV per berlusconi. Nel più puro stile del presidente del PdL, Grillo non si fa scrupolo di attaccare violentemente le istituzioni, qualora queste osino esprimere una posizione critica nei suoi confronti. Così recentemente Vendola su questa somiglianza: «Tra il 92 e il 94 era apparso questo uomo nuovo, Berlusconi», che «vinse in nome dell’antipolitica, perseguendo un consenso aggressivo, con un populismo disinvolto e come alternativo al fango istituzionalizzato». E il Movimento 5 Stelle, secondo il leader di SeL, «usa forme tipiche del populismo di destra, tanto da avere persino tratti xenofobi e omofobi».

Gli Anni 80 al Cinema

Gli Anni 80 al Cinema

Altrettanto repentinamente di com’era nata, la New Hollywood conosce la sua fine all’inizio degli Anni 80. Il grande successo economico di film come Guerre Stellari e la conseguente nascita del fenomeno dei blockbuster aveva già da qualche anno spostato l’attenzione da lavori più autoriali verso pellicole maggiormente sfruttabili a livello commerciale. Il clamoroso fallimento del costosissimo I Cancelli dei Cielo di Michael Cimino del 1981 pone poi una pietra tombale sul cosidetto “Director System”. Non esistono più gruppi di registi riuniti intorno ad un manifesto di intenti, o legati da principi estetici e da categorie artistiche definite. C’è per contro una notevole frammentazione per cui ogni autore segue la propria strada. Le case produttrici si riappropriano del potere decisionale e del controllo sul lavoro dei registi, ripristinando un rigido sistema industriale, all’interno del quale rafforzarsi attraverso l’unione in compagnie con altri settori commerciali, dove poter sviluppare l’altamente remunerativa pratica del merchandising. Con queste premesse il Cinema Postmoderno che si afferma negli Anni 80 non può certo far leva sulla profondità dei contenuti, ma si concentra prevalentemente sul proprio potenziale seduttivo, ponendo l’accento sugli aspetti scenografici, sull’uso degli effetti speciali, sulle innovazioni tecnologiche. Mentre negli Anni 70 la realtà con le sue contraddizioni era al centro del racconto filmico, negli 80 il cinema torna ad essere illusione, fantasia, avventura. Si ripescano temi e forme del passato, in un procedimento di ibridazione di generi e stili. Un’operazione che mira a citare, de-costruire e riscrivere i classici, secondo modalità che hanno perso ogni caratteristica del tipico racconto di genere per assumere connotazioni di frammentazione e commistione. Blade Runner di Ridley Scott, C’era una Volta in America di Sergio Leone, e Gli Intoccabili di Brian De Palma ne costituiscono gli esempi più significativi.

Quanto al cinema italiano, gli Anni 80 raffigurano un periodo in cui ricostruire un’identità perduta, ricercare nuovi contenuti e tentare una rifondazione. Bertolucci e Tornatore conquistano l’Oscar, rispettivamente con L’Ultimo Imperatore e Nuovo Cinema Paradiso. La comicità popolare trova nuova linfa con autori come Verdone, Benigni e Troisi. Ma è con Nanni Moretti, capace di rappresentare contenuti importanti con ironia e leggerezza, che si determina il miglior connubio fra autorialità e commedia. 

Mi dicono che son diventato papà!

Mi dicono che son diventato papà!

Come primissima personale dichiarazione d’intenti nel ruolo oltremodo impegnativo e responsabile di papà, prometto che non darò mai modo a mia figlia di condividire alcune battute di Woody Allen sui propri genitori:
 
«Venivo spesso picchiato dai miei genitori. La mia famiglia abitava sopra a un bowling, ma erano spesso gli avventori del bowling a protestare per il troppo rumore».
 
«Quando ero piccolo i miei genitori mi volevano talmente bene che mi misero nella culla un orsacchiotto… vivo!».
 
«Quand’ero piccolo i miei genitori hanno cambiato casa una decina di volte. Ma io sono sempre riuscito a trovarli».
I 100 anni della Universal

I 100 anni della Universal

Era il 30 aprile 1912, esattamente 100 anni fa, quando un ex commerciante in tessuti di origine tedesca fondò la Universal Film Company, la più antica casa di produzione cinematografica. Carl Laemmle qualche anno prima era rimasto affascinato dalla popolarità dei cinema Nickelodeon, dove per un nickel – per l’appunto – venivano proiettati dei cortometraggi di vario genere. Venduti i suoi tessuti, aveva acquistato una di queste sale, iniziando così la sua prodigiosa carriera nell’ambito della Settima Arte. Nel 1915 Laemmle sbalordì Hollywood inaugurando Universal City, un appezzamento di 230 acri trasformato in una vera e propria città del cinema, dotata di scuole, polizia ed ospedali propri, oltre che naturalmente di una serie di set fissi. 

Contrariamente ad altre case cinematografiche dell’epoca che tenevano nascosti i nomi dei loro attori per evitare rivendicazioni salariali, Laemmle credeva molto nel divismo e lavorò duro per rendere sempre più noti gli attori che lavoravano per lui. E così negli anni del muto portò alla fama internazionale star come Rodolfo Valentino, Mary Pickford e Lon Chaney. Con l’avvento del sonoro la Universal si dedicò in particolare alla produzione di un nuovo ciclo di film horror con divi del calibro di Bela Lugosi e Boris Karloff, creando dal nulla – con Dracula, Frankenstein, la Mummia e tanti altri “mostri” – un immaginario cinematografico che è vivissimo ancora adesso.  Successivamente sarebbero arrivati Alfred Hitchcock e Steven Spielberg, Martin ScorsesePeter Jackson e molti altri. E poi ancora capolavori come Il Buio oltre la Siepe, Gli Uccelli, La Stangata, Lo Squalo, Il Cacciatore e La mia Africa. 100 anni di emozioni, sogni e magie, con l’inconfondibile logo della Universal [messo a lucido per l’occasione] a richiamare alla mente quell’istante carico di attese che precede l’inizio di un film e che ci prepara alla più grande suggestione di sempre.

To Rome with Love

To Rome with Love

Poter assistere ad un nuovo film di Woody Allen dopo solo 4 mesi dal precedente è un regalo. Un regalo che diventa addirittura unico, quando poi si considera che la pellicola è stata girata a Roma e segna il ritorno del regista newyorchese davanti alla macchina da presa dopo ben 6 anni e – per le cose di casa nostra – dopo la scomparsa di Oreste Lionello. Iniziamo allora col dire che Leo Gullotta, a cui è stata affidata la titanica impresa di sostituire la voce italiana di Allen da oltre 40 anni a questa parte, se la cava dignitosamente e riesce a non uscire stritolato dall’inevitabile confronto col timbro inconfondibile che Lionello aveva donato all’autore di Manhattan.

To Rome with Love non è fra le cose migliori del tour europeo di Allen [penso a Match Point e Midnight in Paris, ma anche a Scoop], però si tratta comunque di un lavoro godibile, abbellito da un cast ricchissimo. E’ una commedia simpatica e spensierata, virata verso una cifra surreale, forte di uno degli attori migliori nello specifico. Ma è proprio da Roberto Benigni che arriva un’inaspettata nota di scontento. L’attore toscano infatti appare troppo legato e privo della sua vena più graffiante. Il film gira attorno a 4 differenti storie a cui le bellezze incantevoli della città eterna fanno da sfondo. Roma non viene ritratta con una lente necessariamente aderente alla realtà [come del resto già successo con Londra, Barcellona, Parigi, e la stessa New York], ma così come si lascia ammirare dalla sensibilità speciale e dagli occhi sinceri di un regista americano. Allen tiene per sè il meglio ed il suo episodio è quello più divertente. In effetti basta vedere il suo volto, sospeso fra la goffaggine e lo sconforto, ed ammirare la sua straordinaria mimica facciale perchè un film non propriamente indimenticabile diventi un appuntamento imperdibile. 

Dove i contributi non sono finanziamenti

Dove i contributi non sono finanziamenti

Nell’aprile del 1993 un referendum cancellò in maniera schiacciante il finanziamento pubblico ai partiti. Meno di un anno dopo la legge fu di fatto reintrodotta, cambiando semplicemente la definizione “finanziamento pubblico” in “contributo per le spese elettorali”. A parte domandarsi che democrazia è quella in cui  una precisa ed incontestabile volontà popolare viene ribaltata grazie ad un escamotage lessicale, oggi – dopo vent’anni – resta soltanto l’amarezza nel constatare l’enormità di denaro pubblico di cui i partiti dispongono in una dimensione priva di controlli.

Ma all’estero cosa succede? Come si sa, negli Stati Uniti non esiste alcun tipo di rimborso elettorale. Il sistema di finanziamento a politici e partiti è volontario e privato. In Gran Bretagna hanno accesso alle sovvenzioni solo i partiti dell’opposizione, svantaggiati nel recuperare sostegno economico da lobby e gruppi industriali, come succede invece a chi sta al Governo. In Germania sia l’aiuto economico pubblico sia le donazioni private stanno all’interno di una sfera rigidamente e chiaramente definita dalla Costituzione e da una serie di leggi. Certamente non esiste un modello perfetto, in cui non siano possibili storture ed illegalità, ma soltanto in Italia sono i partiti stessi a certificare i loro bilanci, al di fuori di qualsiasi verifica di legge. Senza alcun tetto massimo e con un’enorme sperequazione tra spese effettivamente sostenute e rimborsi percepiti. 

Romanzo di una strage

Romanzo di una strage

«Il vero senso del film è il suo tentativo di spiegare ai ragazzi d’oggi cos’è stato quel tempo e quell’età, ma non mi sorprendo che chi l’abbia vissuta possa criticarlo. Me l’aspetto, l’ho messo in conto». Così Marco Tullio Giordana sulle  polemiche che – come ormai accade a qualsiasi film sugli Anni di Piombo, o che più genericamente si occupi della storia contemporanea di questo Paese – hanno accompagnato Romanzo di una Strage. Il nuovo lavoro del regista di I Cento Passi e La Meglio Gioventù racconta gli oscuri retroscena dell’attentato di Piazza Fontana del 1969, uno dei più tragici ed ancora insoluti avvenimenti che l’Italia abbia dovuto affrontare e che è costato la vita a 17 persone.

Limitandosi ad analizzare gli aspetti eminentemente filmici ed accantonando quelli attinenti alla ricostruzione dei fatti [contestata da diversi protagonisti della vicenda, fra cui il giudice D’ambrosio], la cui veridicità va comunque pretesa da ben altre sedi, Romanzo di una Strage è una scommessa vinta. La pellicola convince ed avvince lo spettatore, forte del provato mestiere del regista e della bravura del cast, su cui spiccano Pierfrancesco Favino nei panni dell’anarchico Pinelli, Valerio Mastrandea in quelli del commissario Calabresi e Fabrizio Gifuni in quelli dell’allora Ministro degli Esteri, Aldo Moro. Un film sicuramente complesso, perchè complesse e torbide sono le vicende che narra, legate alle indagini della Questura di Milano, inizialmente convinta della matrice anarchica della strage, che poi però dovrà fare i conti – fra mille ostacoli, coperture e depistaggi –  con un insieme di indizi che porta ad una cospirazione fra neonazisti veneti e settori deviati dei servizi segreti. Si tratta comunque di un lavoro che – dato l’assunto iniziale – svolge ottimamente l’importante compito didattico che si era prefisso.