Sfogliato da
Mese: Aprile 2012

Mi dicono che son diventato papà!

Mi dicono che son diventato papà!

Come primissima personale dichiarazione d’intenti nel ruolo oltremodo impegnativo e responsabile di papà, prometto che non darò mai modo a mia figlia di condividire alcune battute di Woody Allen sui propri genitori:
 
«Venivo spesso picchiato dai miei genitori. La mia famiglia abitava sopra a un bowling, ma erano spesso gli avventori del bowling a protestare per il troppo rumore».
 
«Quando ero piccolo i miei genitori mi volevano talmente bene che mi misero nella culla un orsacchiotto… vivo!».
 
«Quand’ero piccolo i miei genitori hanno cambiato casa una decina di volte. Ma io sono sempre riuscito a trovarli».
I 100 anni della Universal

I 100 anni della Universal

Era il 30 aprile 1912, esattamente 100 anni fa, quando un ex commerciante in tessuti di origine tedesca fondò la Universal Film Company, la più antica casa di produzione cinematografica. Carl Laemmle qualche anno prima era rimasto affascinato dalla popolarità dei cinema Nickelodeon, dove per un nickel – per l’appunto – venivano proiettati dei cortometraggi di vario genere. Venduti i suoi tessuti, aveva acquistato una di queste sale, iniziando così la sua prodigiosa carriera nell’ambito della Settima Arte. Nel 1915 Laemmle sbalordì Hollywood inaugurando Universal City, un appezzamento di 230 acri trasformato in una vera e propria città del cinema, dotata di scuole, polizia ed ospedali propri, oltre che naturalmente di una serie di set fissi. 

Contrariamente ad altre case cinematografiche dell’epoca che tenevano nascosti i nomi dei loro attori per evitare rivendicazioni salariali, Laemmle credeva molto nel divismo e lavorò duro per rendere sempre più noti gli attori che lavoravano per lui. E così negli anni del muto portò alla fama internazionale star come Rodolfo Valentino, Mary Pickford e Lon Chaney. Con l’avvento del sonoro la Universal si dedicò in particolare alla produzione di un nuovo ciclo di film horror con divi del calibro di Bela Lugosi e Boris Karloff, creando dal nulla – con Dracula, Frankenstein, la Mummia e tanti altri “mostri” – un immaginario cinematografico che è vivissimo ancora adesso.  Successivamente sarebbero arrivati Alfred Hitchcock e Steven Spielberg, Martin ScorsesePeter Jackson e molti altri. E poi ancora capolavori come Il Buio oltre la Siepe, Gli Uccelli, La Stangata, Lo Squalo, Il Cacciatore e La mia Africa. 100 anni di emozioni, sogni e magie, con l’inconfondibile logo della Universal [messo a lucido per l’occasione] a richiamare alla mente quell’istante carico di attese che precede l’inizio di un film e che ci prepara alla più grande suggestione di sempre.

To Rome with Love

To Rome with Love

Poter assistere ad un nuovo film di Woody Allen dopo solo 4 mesi dal precedente è un regalo. Un regalo che diventa addirittura unico, quando poi si considera che la pellicola è stata girata a Roma e segna il ritorno del regista newyorchese davanti alla macchina da presa dopo ben 6 anni e – per le cose di casa nostra – dopo la scomparsa di Oreste Lionello. Iniziamo allora col dire che Leo Gullotta, a cui è stata affidata la titanica impresa di sostituire la voce italiana di Allen da oltre 40 anni a questa parte, se la cava dignitosamente e riesce a non uscire stritolato dall’inevitabile confronto col timbro inconfondibile che Lionello aveva donato all’autore di Manhattan.

To Rome with Love non è fra le cose migliori del tour europeo di Allen [penso a Match Point e Midnight in Paris, ma anche a Scoop], però si tratta comunque di un lavoro godibile, abbellito da un cast ricchissimo. E’ una commedia simpatica e spensierata, virata verso una cifra surreale, forte di uno degli attori migliori nello specifico. Ma è proprio da Roberto Benigni che arriva un’inaspettata nota di scontento. L’attore toscano infatti appare troppo legato e privo della sua vena più graffiante. Il film gira attorno a 4 differenti storie a cui le bellezze incantevoli della città eterna fanno da sfondo. Roma non viene ritratta con una lente necessariamente aderente alla realtà [come del resto già successo con Londra, Barcellona, Parigi, e la stessa New York], ma così come si lascia ammirare dalla sensibilità speciale e dagli occhi sinceri di un regista americano. Allen tiene per sè il meglio ed il suo episodio è quello più divertente. In effetti basta vedere il suo volto, sospeso fra la goffaggine e lo sconforto, ed ammirare la sua straordinaria mimica facciale perchè un film non propriamente indimenticabile diventi un appuntamento imperdibile. 

Dove i contributi non sono finanziamenti

Dove i contributi non sono finanziamenti

Nell’aprile del 1993 un referendum cancellò in maniera schiacciante il finanziamento pubblico ai partiti. Meno di un anno dopo la legge fu di fatto reintrodotta, cambiando semplicemente la definizione “finanziamento pubblico” in “contributo per le spese elettorali”. A parte domandarsi che democrazia è quella in cui  una precisa ed incontestabile volontà popolare viene ribaltata grazie ad un escamotage lessicale, oggi – dopo vent’anni – resta soltanto l’amarezza nel constatare l’enormità di denaro pubblico di cui i partiti dispongono in una dimensione priva di controlli.

Ma all’estero cosa succede? Come si sa, negli Stati Uniti non esiste alcun tipo di rimborso elettorale. Il sistema di finanziamento a politici e partiti è volontario e privato. In Gran Bretagna hanno accesso alle sovvenzioni solo i partiti dell’opposizione, svantaggiati nel recuperare sostegno economico da lobby e gruppi industriali, come succede invece a chi sta al Governo. In Germania sia l’aiuto economico pubblico sia le donazioni private stanno all’interno di una sfera rigidamente e chiaramente definita dalla Costituzione e da una serie di leggi. Certamente non esiste un modello perfetto, in cui non siano possibili storture ed illegalità, ma soltanto in Italia sono i partiti stessi a certificare i loro bilanci, al di fuori di qualsiasi verifica di legge. Senza alcun tetto massimo e con un’enorme sperequazione tra spese effettivamente sostenute e rimborsi percepiti. 

Romanzo di una strage

Romanzo di una strage

«Il vero senso del film è il suo tentativo di spiegare ai ragazzi d’oggi cos’è stato quel tempo e quell’età, ma non mi sorprendo che chi l’abbia vissuta possa criticarlo. Me l’aspetto, l’ho messo in conto». Così Marco Tullio Giordana sulle  polemiche che – come ormai accade a qualsiasi film sugli Anni di Piombo, o che più genericamente si occupi della storia contemporanea di questo Paese – hanno accompagnato Romanzo di una Strage. Il nuovo lavoro del regista di I Cento Passi e La Meglio Gioventù racconta gli oscuri retroscena dell’attentato di Piazza Fontana del 1969, uno dei più tragici ed ancora insoluti avvenimenti che l’Italia abbia dovuto affrontare e che è costato la vita a 17 persone.

Limitandosi ad analizzare gli aspetti eminentemente filmici ed accantonando quelli attinenti alla ricostruzione dei fatti [contestata da diversi protagonisti della vicenda, fra cui il giudice D’ambrosio], la cui veridicità va comunque pretesa da ben altre sedi, Romanzo di una Strage è una scommessa vinta. La pellicola convince ed avvince lo spettatore, forte del provato mestiere del regista e della bravura del cast, su cui spiccano Pierfrancesco Favino nei panni dell’anarchico Pinelli, Valerio Mastrandea in quelli del commissario Calabresi e Fabrizio Gifuni in quelli dell’allora Ministro degli Esteri, Aldo Moro. Un film sicuramente complesso, perchè complesse e torbide sono le vicende che narra, legate alle indagini della Questura di Milano, inizialmente convinta della matrice anarchica della strage, che poi però dovrà fare i conti – fra mille ostacoli, coperture e depistaggi –  con un insieme di indizi che porta ad una cospirazione fra neonazisti veneti e settori deviati dei servizi segreti. Si tratta comunque di un lavoro che – dato l’assunto iniziale – svolge ottimamente l’importante compito didattico che si era prefisso. 

diBossioni!

diBossioni!

E così, dopo l’uscita di scena di berlusconi dello scorso novembre, anche Umberto Bossi è costretto ad abbandonare il suo posto di comando. I due uomini che per vent’anni hanno retto le pessime sorti della Seconda Repubblica, si trovano oggi accumunati da un analogo destino. Le dimissioni del Senatur ufficializzano la crisi del suo partito, evidente ormai da diverso tempo. Difficile considerare l’esperienza di Governo della Lega in modo anche solo lontanamente positivo. Il partito di Bossi infatti in quasi vent’anni non è riuscito ad ottenere nessuno degli obiettivi che si era prefissato. La sua presenza a Roma non ha potuto far altro che rendere insostenibile la contraddizione di un movimento che pur non riconoscendo la sovranità dello Stato Italiano, si è trovato a rappresentarlo all’interno delle Istituzioni, nel peggiore dei modi possibili, muovendosi sempre secondo dinamiche che hanno fomentato localismi e chiusure identitarie, e spinto all’intolleranza e al rifiuto di chi è diverso.
 
I motivi che costringono Bossi ai margini della scena politica provocano una particolare amarezza, specie se si considerano le origini del suo partito. Nato come reazione alla corruzione della Prima Repubblica ed ora interprete proprio di quella stessa ladroneria che vent’anni fa contestava con tanta veemenza. E’ la nemesi della Lega e la fine politica del suo leader, stretto – anche a causa della malattia che lo ha colpito nel 2004 – all’interno di un cerchio magico [che oggi sarebbe più opportuno definire tragico] di collaboratori e familiari, rivelatisi spregiudicati profittatori. E se la decisione di dimettersi è senz’altro apprezzabile, lo stesso non si può dire delle dichiarazioni rilasciate anche in queste ore, che parlano  – all’insegna del più stantio sproloquio berlusconiano – di “giustizia ad orologeria”. Anche in questo quindi il populismo di Bossi si fonde con il cesarismo dell’ex premier. Due facce dello stesso tracollo culturale e sociale, ancor prima che politico, che l’Italia ha dovuto subire in questi anni.
La difficile vita del tesoriere

La difficile vita del tesoriere

E’ indubbio ormai che fare il tesoriere di un partito politico sia un mestiere terribilmente usurante. Avere ogni giorno a che fare con vagonate di soldi senza essere colti dalla tentazione di impiegarli in modo indebito è umanamente impossibile. Come biasimare allora il senatore Luigi Lusi, tesoriere della Margherita, indagato per aver prelevato dalle casse del partito, naturalmente ad insaputa della dirigenza, almeno 13 – diconsi 13 – milioni di euro, ed averli quindi spesi per acquistare appartamenti di lusso, ville ai Castelli Romani, perfino una casetta in Canadà. Costringendo così il buon Rutelli ad uno sfiancante tour mediatico con l’obiettivo di convincere l’opinione pubblica della sua estraneità ai fatti, come se da un punto di vista meramente politico, essere così fessi da farsi soffiare sotto il naso fiumi di denaro sia davvero tanto meglio d’essere dei ladri.

Come già successo con Lusi, risulta davvero troppo facile fare i fustigatori della domenica nei confronti del povero tesoriere del Carroccio Francesco Belsito [con illustri trascorsi di buttafuori nelle discoteche della riviera ligure e di titolare di un’impresa di pulizie], accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato e appropriazione indebita. Avrebbe infatti usato parte dei finanziamenti pubblici della Lega per sostenere alcune spese della famiglia Bossi. Una persona come berlusconi, che ha sempre fatto della trasparenza e della rettitudine morale una linea personale di condotta, ha pensato bene – dall’alto della sua incontestabile autorevolezza – di rilasciare al riguardo una sollecita dichiarazione: «Chiunque conosca Umberto Bossi come me non può essere neanche sfiorato dal sospetto che abbia commesso alcunché di illecito». Con un garante così, come possibile dubitare?