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Categoria: cinema

I sogni e le illusioni di Woody

I sogni e le illusioni di Woody

«La vita è piena di rumore e furore e alla fine non significa nulla».  Prende le mosse da queste amarissime parole di Shakespeare il nuovo film di Woody Allen, che – seguendo le frenetiche vicende di due coppie in crisi, quella già attempata di Helena ed Alfie [un istrionico ed efficace Anthony Hopkins] e quella della loro figlia Sally – finisce col giungere alla stessa conclusione di una sua pellicola di 20 anni fa: Ombre e Nebbia, secondo cui «L’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira». Sono infatti coloro che accettano di vivere nell’illusione, gli unici capaci di godersi l’esistenza anche solo per un istante. Intorno a questo concetto, su cui si innesta una considerazione cinica e spietata sulla vecchiaia, il regista – che ha da pochi giorni compiuto 75 anni – sviluppa Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni. Una commedia agrodolce a cui manca l’umorismo dissacrante dei tempi migliori, ma che comunque è  in grado di offrire riflessioni profonde ed intelligenti. I temi trattati sono tipicamente alleniani:  la disperata ricerca di risposte e soddisfazioni da parte della middle class colta e frustrata, alle prese con amori, tradimenti ed aspirazioni fallite, oltre che con le casualità della vita.

Concordo con Curzio Maltese che su La Repubblica scrive «Essere contemporanei di Woody Allen è una fortuna, come esserlo stati di altri geni prolifici e longevi, Georges Simenon per esempio. Ogni anno c’è un film che vale sicuramente la pena di vedere. Un altro capitolo di una commedia umana cominciata negli anni Settanta. Nuovi caratteri, altri memorabili personaggi e la filosofia di sempre. Ogni nuovo film di Allen è in fondo un apologo sul senso della vita, o sul non senso». Chi si aspettava le battute fulminanti di Basta che funzioni è rimasto deluso ed infatti il film ha spaccato la critica. Chi lo ha visto si è sostanzialmente diviso fra chi sostiene che ormai Allen fa sempre lo stesso film e chi – come me – spera che continui a farlo ancora per molto. «Per me non c’é differenza fra chi legge le carte, chi si affida a un biscotto della fortuna o ad una qualsiasi delle religioni organizzateha recentemente dichiarato il regista  – sono tutte ugualmente valide, o non valide. E tutte ugualmente d’aiuto. Ero interessato al tema della fede, al concetto del credere in qualcosa. Sembra banale ma tutti noi abbiamo bisogno di un’illusione per andare avanti e le persone che sanno illudersi sono più felici di quelle che non sanno farlo». Come dargli torto? Ma soprattutto: come negare che l’amore – che resta ancora in cima alla famosa lista di cose per cui vale la pena vivere – ancorchè illusorio, non meriti d’esser pienamente vissuto? In fondo non importa se sia vero oppure no, quel che conta è “che funzioni”.

Un eroe dei nostri tempi

Un eroe dei nostri tempi

Mario Monicelli è la Commedia all’Italiana. Ne costituisce il suo inizio con quei due capolavori che sono I soliti ignoti e La Grande Guerra, rispettivamente del 1958 e del 1959 e ne segna la fine nel 1977 con l’immenso Un borghese piccolo piccolo. Prima, durante e dopo, tanti film indimenticabili, di straordinaria fattura, impreziositi da sceneggiature curatissime e da una precisa analisi della quotidianità dell’uomo medio. Un lunghissimo racconto caratterizzato da uno sguardo acuto e disincantato, che traspone sul grande schermo quell’amara ironia che è il vero filo rosso che attraversa ed unisce tutta l’opera del regista viareggino. Il tratto più rilevante della personalità di Monicelli sta proprio nel contrappunto che si pone tra una puntuale attenzione sociologica ed una vena comica travolgente. Irrispettoso di ogni conformismo e di ogni retorica, è sempre riuscito a cogliere con allegra ferocia o con umana comprensione vizi e vezzi del nostro Paese, regalando ai più grandi attori italiani i loro ruoli migliori.

Si è spento ieri a 95 anni, scegliendo di andare deliberatamente incontro alla morte, un pò come Sordi e Gassman nel film più bello della storia del Cinema Italiano, perchè l’idea di libertà è più grande della vita stessa.

Generazione Facebook

Generazione Facebook

Dopo Seven e Fight Club David Fincher continua con The social network la sua analisi delle contraddizioni e dei mali della società contemporanea. Il film narra la genesi e l’ascesa di Facebook, il sito di reti sociali che ha rivoluzionato le abitudini di 500 milioni di persone nel mondo e che oggi è valutato circa 25 miliardi di dollari. Una vicenda che, prendendo a prestito la frase di Balzac secondo cui Dietro ogni grande fortuna si nasconde un crimine, fornisce una versione amara ed ossessiva del sogno americano, inserendolo nel contesto della neo-classista società americana di questo primo scorcio di secolo. La paradossale storia di un ragazzo incapace di relazionarsi con amici e amori, che proprio sulle relazioni umane costruisce il più colossale business della storia moderna, fa quindi da spunto per esplorare l’era della comunicazione globale. Facebook nasce come idea anarchica e ribelle nei confronti dell’elitarismo dei college americani. Uno strumento di riscatto attraverso cui Mark Zuckerberg, il ventenne fondatore del social network, intende emanciparsi dalla propria condizione di nerd, tra rivalità, gelosie, intrighi, tradimenti e battaglie legali. Uno “stronzo per scelta” che, pur di raggiungere il suo obiettivo, fa il vuoto intorno a sè e, in una scena finale straordinaria per intensità e simbolismo, cade vittima della propria creazione cercando dalla Rete ciò che la Vita gli ha negato.

L’occhio del regista è neutrale, non giudica, non prende posizione su chi siano i buoni e i cattivi, ma racconta con grandissima efficacia le diverse verità della stessa storia. Un montaggio che scompone la linea temporale del racconto conferendo al film un ritmo incalzante, i dialoghi taglienti dovuti al talento dello sceneggiatore Aaron Sorkin, ed un cast perfetto su cui spicca il protagonista Jesse Eisenberg, sono i punti di forza di questa nuova perla nella carriera di David Fincher.

Addio a Tony Curtis

Addio a Tony Curtis

Dopo la scomparsa di ieri di Arthur Penn, oggi se ne va anche Tony Curtis, uno degli attori più rappresentativi della Hollywood degli Anni 50 e 60. Perfettamente a suo agio sia in film drammatici come Piombo rovente, La parete di fango e Spartacus, che in celebri commedie come Operazione sottoveste e – naturalmente – A qualcuno piace caldo, dove dà prova di tutto il suo istrionismo col triplice ruolo del sassofonista squattrinato, del finto miliardario che seduce l’ingenua Marlyn Monroe e – en travesti – di Josephine, amica di Daphne, alias Jack Lemmon. Nei primi Anni 70 approda alla televisione ed ottiene un nuovo trionfo con la serie Attenti a quei due, insieme a Roger Moore, perfezionando il personaggio dell’irresistibile mascalzone che aveva già interpretato diverse volte sul grande schermo.

«Nella mia vita ho avuto un solo sogno: fare filmha scritto l’attore nella sua autobiografiaForse è stato perché ho avuto un’infanzia piuttosto difficile, o forse era perché ero sempre un po’ insicuro, ma da quando ero bambino ho sempre desiderato di vedere me stesso sul grande schermo».

La materia di cui sono fatti i sogni

La materia di cui sono fatti i sogni

Quando nel 2000 uscì Memento, pensai che il suo regista e sceneggiatore, allora sconosciuto, fosse un genio. Oggi, dopo aver visto l’ultimo film di Christopher Nolan, ne sono ancor più fermamente convinto. Come ha scritto Newsweek, in questi ultimi anni la maggior parte dei prodotti mainstream hanno raccontato storie di viaggi verso luoghi fittizi in cui poter imparare qualcosa di noi. Due esempi su tutti: Pandora, il pianeta di Avatar, e l’isola di Lost. Il primo usato per veicolare un’opinione politica, la seconda per discutere di morale e filosofia. Nolan invece pone la ricerca all’interno di sè, analizzando il subconscio dell’uomo e reinventando il modo che il cinema ha di trattare i sogni. Inception ha con Memento diversi punti in comune. Entrambi infatti giocano a destrutturare il normale fluire del tempo, hanno una struttura narrativa ad incastri e mettono in campo il rapporto, spesso confuso, fra realtà ed immaginazione, puntando a far perdere l’orientamento al pubblico. I protagonisti delle due vicende sono vittima del passato e del senso di colpa per la morte prematura e violenta della propria moglie. Sia l’uno che l’altro alla ricerca di una “verità” che si rivelerà inadatta a rispondere a criteri di oggettività ed inoppugnabilità, considerato che la nostra visione del mondo viene filtrata in base a ciò che è la propria storia e la propria personale percezione. Quindi che senso ha distinguere ancora fra vero e falso, fatto e sogno, passato e presente?

Inception è un capolavoro, la dimostrazione che si possa ancora realizzare un blockbuster che non sia obbligatoriamente in 3D o tratto da un fumetto, che sappia coniugare intrattenimento ad intelligenza, azione a metafisica. Il protagonista, interpretato da un ottimo Leonardo Di Caprio, è un abilissimo scassinatore del subconscio, in grado di penetrare nei sogni di una persona per manipolarli. Intorno a questa idea di base, ruotano – con grande sapienza narrativa – una serie di livelli di lettura e di spunti di riflessione non indifferenti. Su un impianto visivo strabiliante, costellato da effetti speciali mai visti prima, come quello che mostra Parigi che si richiude su se stessa come il coperchio di una scatola, Nolan innesta un’incursione profonda nel mondo dell’immaginazione, che può essere letta anche come un evidente rimando ad uno dei più grandi atti immaginativi esistenti: il cinema, ovvero l’arte del sogno per eccellenza, per dirla con Gondry. Ma Inception è anche [e forse sopratutto] una storia d’amore: un amore puro, folle ed ossessivo.

La fatica di far ridere

La fatica di far ridere

A causa del cuore malato e di una vita condotta sul filo dell’autolesionismo, il 24 luglio di 30 anni fa, a soli 54 anni, moriva Peter Sellers, uno dei più grandi geni comici del secolo scorso, abilissimo nei travestimenti e nelle imitazioni, ma perfettamente a suo agio anche in ruoli drammatici. A detta di tutti era un uomo con cui era difficile vivere e lavorare. Il suo privato fu molto inquieto: collezionò 4 mogli, fra cui la bellissima attrice svedese Britt Ekland ed ebbe numerose passioni, la più celebre delle quali fu quella, non corrisposta, per Sofia Loren. Come molti comici, nutriva seri dubbi sulle sue capacità e questo lo rendeva soggetto a periodi di forte depressione. Fu  inoltre troppo spesso vittima di sceneggiatori e registi che non seppero sfruttare appieno il suo immenso talento.

La sua filmografia annovera, comunque, anche una serie di film buoni e persino eccezionali, che gli assicurano un posto di primissimo piano nella storia del Cinema. Fra questi Lolita [1962] e Il dottor Stranamore [1964] entrambi di Stanley Kubrick, e poi Hollywood Party [1968] di Blake Edwards. Nel 1963, sempre insieme ad Edwards, l’attore crea il mito Clouseau, il maldestro detective francese de La pantera rosa. La pellicola ha un tale successo che l’anno successivo viene realizzato un brillante seguito intitolato Uno sparo nel buio. Quando la serie viene riesumata negli anni settanta, perchè Sellers si trova in problemi economici e di popolarità, l’ispettore Clouseau è diventato una parodia, che comunque raccoglie nuovamente i favori del grande pubblico. Il suo autentico capolavoro arriva un anno prima della morte. In Oltre il giardino di Hal Ashby, l’attore inglese, nei panni di un giardiniere candido e ritardato che viene portato in trionfo come genio della politica, fornisce un’intepretazione sottile, misurata, poetica e commovente. «Non c’è nessun me! C’era un po’ di tempo fa, ma me lo sono fatto asportare chirurgicamente!», dichiarò in una intervista. Una frase che ben sintetizza la complessità della sua esistenza, in cui la capacità camaleontica di calarsi nei ruoli più diversi si univa alla disperazione per non essere mai soddisfatto del risultato ottenuto.

Dean & me: una storia d’amore

Dean & me: una storia d’amore

Per dieci anni furono popolari come solo Elvis o i Beatles sarebbero stati dopo di loro, ottenendo un successo senza precedenti in ogni forma d’intrattenimento possibile: night clubs, teatri, radio, televisione ed infine cinema. Dean Martin e Jerry Lewis furono un’istituzione nazionale, sempre accompagnati da scene di incredibile isterismo da parte dei moltissimi fan che li seguivano ovunque. Nel luglio 1956, quando la coppia si sciolse, l’America visse un vero e proprio trauma.

Dean & me: una storia d’amore, uscito lo scorso mese per Sagoma Editore, è un’autobiografia piena di ricordi toccanti e divertenti, in cui Jerry Lewis racconta con lucidità e schiettezza ogni passo della lunga amicizia con Dean Martin. Dalla primavera del 1945 quando i due ancora sconosciuti si incontrarono per la prima volta «Il solo guardarlo mi intimidì: come fa uno a essere così bello? Ti inondava della sua luce, anche se non ti lasciava entrare. Agli uomini non piace ammetterlo, ma un uomo che sia veramente tale – un cosiddetto ‘uomo perfetto’ – ha qualcosa che lo rende magnetico tanto per noi quanto per le donne. È così che vorrei essere, pensai. Forse se lo frequento diventerò un po’ come lui». Fino alla gelosia e all’acrimonia che li portò a separarsi e a non parlarsi più per vent’anni. Per finire alla maratona benefica di Telethon del 1976, che suggellò la riappacificazione, dinanzi all’amico comune Frank Sinatra: «E arrivò Dean Martin, il mio partner, e per me fu come se il tempo si dilatasse. Le mani iniziarono a sudarmi, la bocca mi diventò secca. Mentre si avvicinava cercai di restare in piedi e poi ci abbracciammo forte, molto forte. Mi diede un bacio sulla guancia e io feci lo stesso. Il pubblico in sala impazzì! Per la prima volta dopo vent’anni eravamo in piedi l’uno accanto all’altro, come sempre Dean a destra del palco, io a sinistra. ‘Mi sembrava fosse arrivato il momento, no?’ disse Frank. Noi due annuimmo contemporaneamente. Parlammo… un po’. Io pregai Dio di farmi dire qualcosa che non mi facesse apparire uno sciocco emotivo. ‘Stai bene?’ chiesi infine, guardandolo dritto negli occhi». Un libro straordinario in cui il grande attore e regista americano, oggi 84enne, si confessa senza vergogna nè reticenze. La vertiginosa ascesa alla celebrità, i casinò, i mafiosi, gli scherzi senza fine, la passione per alcol, donne e spinelli,  le scorribande con Sinatra, i litigi sui set fanno da cornice a questa autentico legame d’amore che ha segnato per sempre la storia della comicità americana.

In ricordo di Vittorio e Walter

In ricordo di Vittorio e Walter

Dieci anni fa in questi giorni ci lasciavano due giganti del Cinema. Vittorio Gassman e Walter Matthau però non sono accomunati soltanto dal fatto di essere scomparsi a poche ore di distanza l’uno dall’altro, ma anche e soprattutto per lo svolgimento della loro carriera cinematografica. Infatti, agli esordi, ambedue si impongono come attori drammatici, talvolta persino nel ruolo dell’odioso antagonista. Dovranno trascorrere oltre 10 anni ed un magnifico regista – Mario Monicelli per Gassman e Billy Wilder per Matthau – per scoprire l’inespresso talento comico dei due. Inutile elencare i tanti capolavori che da allora li vedono come protagonisti di quà e di là dell’oceano, entrambi sovente in coppia con attori altrettanto memorabili, come Ugo Tognazzi, a fianco dell’attore genovese in 5 film, e Jack Lemmon, ben 8 volte sodale di Matthau. Resta il ricordo di due volti in grado di riempire in un attimo lo schermo e raccontare un personaggio anche solo con uno sguardo.
 
Siate soltanto seri e sarete poco seri

Siate soltanto seri e sarete poco seri

Il postino, La famiglia, La terrazza, La donna della domenica, C’eravamo tanto amati, In nome del popolo italiano,  Riusciranno i nostri eroi,  Straziami ma di baci saziami,  Il buono il brutto e il cattivo,  L’armata Brancaleone,  I mostri,  La marcia su Roma,  Il Mafioso,  Risate di gioia,  Tutti a casa,  La grande guerra,  I soliti ignoti,  La banda degli onesti,  Totò e Carolina,  Totò sceicco,  Totò le Mokò. Questi sono solo alcuni dei film scritti da Furio Scarpelli. Scorrendo brevemente questa lista, ci si rende subito conto dell’enorme importanza dello sceneggiatore romano, la cui scomparsa, avvenuta ieri all’età di 90 anni, lascia il Cinema italiano e tutti noi un pò più poveri e soli. Il periodo più intenso è quello degli Anni 50 e 60, quando Scarpelli – in coppia con Age – fa parte di una squadra di straordinari talenti che ci consegna – attraverso la lente della cinepresa – un ritratto lucido, spietato, ironico, disincantato, puntuale di questo nostro piccolo grande Paese e dei suoi fondamentali snodi storici. Tra i compagni di strada dei due scrittori, artefici di molti dei più rappresentativi capolavori della Commedia all’Italiana, vi sono registi come Monicelli, Risi, Scola, Comencini e Petri ed attori quali Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi, Mastroianni e Totò. La commedia, più di ogni altro genere, deve molto alla scrittura, alla parola scritta e parlata, ai dialoghi. In questo senso Age e Scarpelli si affermano come gli inventori di un nuovo linguaggio, capace di cambiare completamente il panorama del cinema popolare, innestando per la prima volta la sensibilità dell’impegno e della denuncia, sul modello di un intrattenimento leggero.

Mi piace ricordare Furio Scarpelli con alcune parole che scrisse in occasione della morte di Alberto Sordi, perchè credo possano valere anche per lui: «Alberto non si limitava a riferire, spietatamente, romani e italiani, occidentali insomma, ma era anche la voce della loro parte più nascosta, forse della loro coscienza. Sapeva che sottraendo l’ironia al reale, si commette reato di falsità. Siate soltanto seri e sarete poco seri».

Uno splendido settantenne

Uno splendido settantenne

Bastano una manciata di film, agli inizi degli Anni 70, perchè Al Pacino si imponga come uno dei più grandi interpreti americani. In lavori come Il Padrino, Il Padrino Parte SecondaLo SpaventapasseriSerpico, Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani, l’attore incarna sapientemente un nuovo tipo di antieroe che proprio in quegli anni va affermandosi: ombroso, mediterraneo, anticonformista, figlio della classe lavoratrice. Il suo stile caratterizzato da una recitazione intensa e nervosa, fatta di improvvise esplosioni, con il corpo che sembra percorso da un fuoco represso, frutto del metodo dell’Actor’s Studio che imponeva agli attori di calarsi totalmente nei personaggi, si inserisce perfettamente nel filone più realista della Nuova Hollywood. In questa prima parte della sua carriera, i personaggi di Pacino sono spesso vittima di storture ed iniquità sociali, idealisti e ribelli alle convenzioni borghesi, alle prese con la fine del “sogno americano”.

Otto nomination all’Oscar e una vittoria nel 1993, quindici nomination al Golden Globe e quattro vittorie. Un Leone d’Oro alla carriera, due David di Donatello, un Emmy Award. Questi i principali riconoscimenti ricevuti da Pacino, che oggi compie 70 anni: una vita spesa interamente per l’arte, tra palcoscenici shakespeariani calcati con assoluta disinvoltura, ed uno splendido percorso cinematografico costellato da una lunghissima serie di film memorabili.