Sfogliato da
Categoria: cinema

Habemus Papam

Habemus Papam

Un nuovo film di Nanni Moretti è un evento, e lo è ancor di più se arriva dopo ben 5 anni dal precedente, il riuscitissimo e profetico Il Caimano. E mentre la pellicola incentrata sulla figura del Presidente del Consiglio tratta di un personaggio disposto a qualsiasi cosa pur di conquistare e mantenere il potere, qui invece si ragiona su un uomo che decide deliberatamente di rinunziare all’enorme responsabilità conferitagli. Da Il Caimano a questo nuovo lavoro, Moretti passa dal raccontare chi ha tracotantemente messo se stesso al di sopra di tutto a chi viceversa, con umiltà, riesce a scorgere i propri limiti pur se investito di un incarico importantissimo. Habemus Papam – una godibilissima commedia surreale che rappresenta una boccata d’ossigeno nel panorama alquanto asfittico del Cinema Italiano – narra le vicende di un Pontefice che si sente inadeguato al ruolo che è stato appena chiamato a ricoprire. Per trovare una soluzione all’angoscia che lo attanaglia e che getta nello sgomento sia la grandissima folla di credenti in attesa della ufficializzazione del nuovo pontificato, sia i cardinali che devono cercare di gestire questo evento mai verificatosi prima, si affiderà ad uno psicanilista e al proprio amore per il teatro.

E’ bene sottolineare che la pellicola non si sviluppa come una facile parabola sulla crisi della fede, quanto piuttosto come una presa di coscienza della fragilità umana. Una riflessione molto “laica” sulla solitudine e sulla ricerca di sè. Un film impreziosito dalla magnifica prova dell’ottantacinquenne Michel Piccoli, assolutamente perfetto nei panni del Papa depresso e confuso a cui fa da contraltare lo psicanista Nanni Moretti, convinto di essere stato lasciato dalla moglie collega perchè “il più bravo di tutti”. Due personaggi complementari, ma entrambi soli dinanzi ad una vita a cui non è sempre facile trovare un senso.

Gli Anni 50 al Cinema

Gli Anni 50 al Cinema

Negli Anni 50 il cinema deve rintuzzare la sfida delle televisione, il nuovo media che catalizza l’interesse delle famiglie americane prima ed europee poi. Ecco allora che – allo scopo di riguadagnare l’attenzione del pubblico –  gli schermi diventano più grandi, i colori più accesi e si impongono generi come la fantascienza e l’epico-storico, caratterizzati da grande spettacolarità ed effetti speciali. Si afferma una nuova generazione di talenti, fra cui Montgomery Clift, Marlon Brando, James DeanPaul Newman. Attori provenienti dall’Actor’s Studio, i quali – contrariamente alle scuole precedenti – non si limitano a recitare una parte, ma – attraverso una profonda introspezione psicologica – mirano a sfruttare passate esperienze personali al fine di immedesimarsi completamente col personaggio interpretato. Appartengono a questo nuovo ambito capolavori come Un Posto al Sole di George Stevens, Fronte del Porto di Elia Kazan e Gioventù Bruciata di Nicholas Ray.

Alfred Hitchcock e Billy Wilder realizzano alcuni dei loro lavori più memorabili: La Finestra sul Cortile, Intrigo Internazionale e La Donna che Visse Due Volte per il maestro del brivido, e Viale del Tramonto, A Qualcuno Piace Caldo e L’Asso nella Manica per il regista austriaco. Generi come il western approdano alla piena maturità, affrontando temi e personaggi più complessi e violenti. Gli esempi più straordinari sono Sentieri Selvaggi di John Ford ed i film nati dalla collaborazione fra James Stewart ed il regista Anthony Mann. Dalle ceneri del Neoralismo prende vita la Commedia all’Italiana, che si discosta nettamente dalle pellicole brillanti realizzate nel nostro Paese fino ad allora, per trattare in chiave satirica argomenti più aderenti alla realtà del tempo, mescolando insieme toni ironici, amari e talvolta drammatici. Le punte più alte del genere sono rappresentate dai due capolavori di Mario Monicelli: La Grande Guerra e I Soliti Ignoti.

Addio alla Gatta

Addio alla Gatta

Con Elizabeth Taylor se ne va l’ultima grande Stella di Hollywood. Una donna dalla bellezza siderale ed un’attrice di sensibile e straordinario talento drammatico. Vinse due Oscar, nel 1961 con Venere in Visone e nel 1967 con Chi Ha Paura di Virginia Woolf, e fu spesso protagonista a fianco dei divi dell’Actor Studio. La si può infatti ammirare accanto a Montgomery Clift in Un posto al sole [1951], L’ Albero della Vita [1957] e Improvvisamente l’Estate Scorsa [1959], a James Dean ne Il Gigante [1955], a Paul Newman ne La gatta sul tetto che scotta [1958], ed insieme a Marlon Brando in Riflessi in un occhio d’oro [1967]. Con i primi due, affascinanti, bravi e tormentatissimi, strinse un rapporto di forte amicizia. Peraltro fu lei a salvare la vita a Clift, vittima di  un terribile incidente automobilistico al rientro da una festa nella villa della diva.

La vita personale –  per moltissimi anni sotto i riflettori dei media – fu rocambolesca ed inquieta, con problemi di alcolismo e di salute, matrimoni a raffica, scandali, glamour ed impegno nel sociale. Diventò un’icona, tanto che la ritrasse Andy Warhol, come con Elvis Presley, Marilyn Monroe, Mao Tse Tung e John Kennedy. Successe nel 1963, anno in cui l’attrice con Cleopatra  fu la prima diva a guadagnare un milione di dollari per un film. Il quadro è stato battuto all’asta solo  qualche mese fa per 6.7 milioni di sterline [circa 9 milioni di euro], segno inequivocabile che oggi ci lascia molto di più che un interprete di successo.

Oscar 2011 – parte seconda

Oscar 2011 – parte seconda

Il Grinta di Joel e Ethan Coen: I fratelli Coen si accostano con rispetto all’epopea western senza stravolgere i topoi del genere. Il film è crepuscolare, condito dal loro tipico umorismo e permeato con toni da favola nera. In questo senso il rimando non è solo alla pellicola omonima del 1969 con John Wayne, ma anche a La morte corre sul fiume di Charles Laughton. La storia è quella di una cocciuta ed arguta quattordicenne che assolda uno sceriffo, ormai anziano e dedito all’alcol, per trovare l’assassino del padre. Jeff Bridges interpreta magnificamente Reuben Cogburn, detto da tutti il Grinta, stella sul petto e una vistosa benda sull’occhio, cinico e disilluso assassino per conto della legge, anarchico e burbero, archetipo degli ultimi eroi virili di un’epoca che sta per teminare. «Il tempo ci sfugge» è l’ultima disincantata battuta che i Coen consegnano alla ragazzina diventata donna, che – molti anni dopo, nello splendido finale – va alla ricerca di chi l’ha aiutata a vendicare la scomparsa del padre, per scoprire che è morto dopo una passerella nel circo di Buffalo Bill. Il west selvaggio, implacabile ed affascinante non esiste più, al suo posto restano solo degli invecchiati protagonisti di un spettacolo itinerante, parodia di ciò che furono una volta. Un lavoro impeccabile questo dei fratelli Coen, personale e classico allo stesso tempo, che in breve tempo è diventato il loro film più di successo. The Fighter di David O. Russel: Ispirato alla vera storia di due fratelli di Boston, il maggiore, ex grande promessa del pugilato caduto in disgrazia a causa della sua tossicodipendenza, aiuterà l’altro a combattere per il titolo mondiale dei pesi leggeri. Storia di disagio e riscatto sociale attraverso la boxe, non certo originale, ma sostenuta da un cast superlativo che rende il film molto più efficace quando ritrae le dinamiche familiari che si sviluppano intorno ai due protagonisti, rispetto ai momenti in cui l’azione si sposta sul ring. Una pellicola sicuramente robusta, dall’impianto classico che riesce a mantenersi interessante pur senza particolari guizzi. 127 Ore di Danny Boyle: La storia è quella vera di un alpinista rimasto intrappolato per cinque giorni in un canyon dello Utah. Nonostante l’estrema drammaticità, la vicenda non è certamente facile da raccontare, considerata la staticità di fondo e la carenza di sviluppi e snodi narrativi. Danny Boyle, già autore di Trainspotting e The Millionaire, prova a superare l’empasse con una regia fatta di montaggio serrato, colori accesi, musiche rock, ed artifizi visivi che alla lunga però risultano ridondanti ed invasivi, mentre il personaggio principale – per quanto ben interpetato da un volenteroso James Franco – rimane troppo poco caratterizzato per essere empatico e provocare un reale coinvolgimento da parte del pubblico. Resta la sensazione di un film pretenzioso e povero di autentiche emozioni.

Anche quest’anno la giuria non ha avuto il coraggio necessario e ha finito per premiare un film dignitoso ma innocuo come Il discorso del Re, che non possiede nè l’acuta analisi delle contraddizioni della società contemporanea di The Social Network, nè tantomeno la formidabile riflessione metacinematografica di Inception. Dispiace che a fronte di 10 nominations il film dei fratelli Coen non abbia conquistato alcun premio. Avrebbe certo meritato Jeff Bridges che nei panni del Grinta fornisce una prova semplicemente maestosa. Bravissimo anche Colin Firth, ma pure in questo caso appare troppo facile e scontata la scelta di premiare l’interpretazione di un personaggio affetto da una qualche disabilità [si pensi – solo per fare qualche esempio – all’ Al Pacino di Profumo di Donna, al Tom Hanks di Forrest Gump, al Dustin Hoffman di Rain Man, al Daniel Day Lewis de Il Mio Piede Sinistro, o al Jon Voight di Tornando a Casa]. Legittimo il premio a Christian Bale che in The Fighter dimostra nuovamente un grande talento ed una eccezionale capacità di modellare il proprio corpo in funzione del personaggio interpretato.

Oscar 2011 – parte prima

Oscar 2011 – parte prima

Di ritorno dalla visione di 3 film in lizza per la conquista di diversi Premi Oscar, riporto alcune sintetiche impressioni.

Il Discorso del Re di Tom Hooper: L’impacciato Re Giorgio VI d’Inghilterra soffre di una grave forma di balbuzie che lo rende incapace di tenere discorsi pubblici. Con il paese sull’orlo della Seconda Guerra Mondiale, è costretto a rivolgersi ad un logopedista, i cui metodi poco ortodossi lo aiuteranno a ricoprire con autorevolezza il proprio ruolo e ad aprirsi ad una duratura amicizia. Pellicola impeccabilmente britannica, tutta dialoghi e magnifiche prove attoriali, fra cui spiccano quelle di Colin Firth e soprattutto di Geoffrey Rush. Ha il limite di guardare troppo alla forma e poco ai contenuti, finendo col risultare eccessivamente manierata. Il Cigno Nero di Darren Aronofsky: Una compagnia di balletto di New York sta allestendo il classico di Chaikovskij “Il lago dei cigni”. Per poter interpretare al meglio oltre che il Cigno Bianco, simbolo di candore ed innocenza, anche il suo opposto – il Cigno Nero – un’ambiziosa ballerina è costretta a fare i conti col suo lato più oscuro ed ossessivo. Thriller psicologico a tinte forti, inutilmente compiaciuto ed esibizionista. Nonostante Natalie Portman fornisca una prova straordinaria, il film si perde nella ricerca dell’eccesso facile e nella presenza di qualche clichè di troppo, finendo per diventare largamente prevedibile e non aggiungere nulla di nuovo alla sterminata filmografia esistente sul tema del doppio. Rabbit Hole di John Cameron Mitchell: La crisi di una coppia a seguito della morte del loro figlioletto di 4 anni in un incidente d’auto. Un film che descrive con grande misura, senza mai scadere nel patetismo, i differenti tentativi dei due di elaborare il dolore e ritrovare un senso alla propria esistenza. Un tema certo non originale per una pellicola che paga l’impianto teatrale e che va avanti senza particolari colpi d’ala, pur consentendo a Nicole Kidman di cucirsi addosso una delle interpretazioni più riuscite della sua carriera.

12 candidature per il primo film, 5 per il secondo e 4 [ma non quella per il miglior film] per il terzo. Si tratta di lavori – specie gli ultimi due – non altrettanto convincenti di The Social Network, ammirato qualche mese fa ed in gara con 8 nomination. Lo stesso numero di Inception, a cui vanno le mie preferenze e che personalmente trovo sia l’unico – tra i dieci film candidati che ho visto – ad avere la statura dell’autentico capolavoro.

Gli Anni 40 al Cinema

Gli Anni 40 al Cinema

Gli Anni 40 – un decennio di transizione che accompagna la Hollywood classica degli anni precedenti sino a nuove tendenze realiste – si aprono con Quarto Potere di Orson Welles, un capolavoro senza tempo che rivoluziona il modo di far cinema sia nello stile che nel linguaggio. Innovazioni che influenzano i tratti distintivi del genere noir, che si impone a partire dal 1941 con Il mistero del falco di John Huston e successivamente con opere come La fiamma del peccato di Billy Wilder, giunto negli Stati Uniti dall’Austria per sfuggire alle persecuzioni naziste. Per lo stesso motivo in quegli anni sbarcano ad Hollywood diversi grandi autori europei, fra cui l’inglese Alfred Hitchcock, che dirige alcune pellicole indimenticabili, come Notorious e Rebecca, la prima moglie. La seconda guerra mondiale provoca un generale cambiamento di tono nei film americani, commedie comprese, le quali finiscono col perdere quella patina dorata tipica degli Anni 30 per introdurre temi ed aspetti più controversi. In questo contesto si inseriscono perfettamente le due perle di Frank Capra: La vita è meravigliosa ed Arsenico e vecchi merletti. Nascono i film anti tedeschi di cui Casablanca di Michael Curtiz rappresenta il momento più memorabile. Anche il genere western, tornato in auge in questo periodo, presenta una maggiore analisi psicologica dei personaggi che vengono ritratti in modo piu chiaroscurale, come nel caso del magnifico Il fiume rosso di Howard Hawks.

Inizio con questo una serie di post che elencano i miei film preferiti per ogni decennio. Non necessariamente i più belli o significativi, ma quelli a cui sono più legato.

Paul Newman. Una vita.

Paul Newman. Una vita.

«Non c’e’ nient’altro che ti fa sentire di più come un pezzo di carne. E’ come dire a una donna: apri la camicia, voglio vedere le tue tette». Così Paul Newman parlava dell’ossessione dei suoi fan circa i suoi famosi occhi blu. Ma la citazione descrive anche come una delle più grandi star dello scorso secolo, eccezionale pilota di auto da corsa, imprenditore di successo e grande filantropo, soffrisse gli eccessi del divismo. Paul Newman: Una vita, la biografia del critico cinematografico Shawn Levy uscita in Italia lo scorso dicembre, racconta con grande dovizia di particolari la storia di un uomo che con straordinaria tenacia riuscì nell’impresa di diventare una delle star più amate del Cinema, mantenendo però il proprio amore per una vita riservata e schiva. E forse è proprio lontano dai clamori del suo lavoro che Newman trovò il senso dell’esistenza: in Connecticut con la moglie e sei figli, negli autodromi, nel proprio attivismo civile, nei campeggi da lui fondati per i bambini malati terminali e, relativamente tardi nella vita, in un business alimentare che in 30 anni gli diede modo di devolvere in beneficienza più di 300 milioni di dollari!  Una persona semplice e al tempo stesso complessa, dotata di un enorme fascino e di un innegabile talento, che sul grande schermo si impose come il perfetto antieroe moderno, affinando film dopo film la propria recitazione, migliorandola costantemente e mantenendola sempre al passo con i tempi, fino a conquistare nel 1985 un meritatissimo Oscar alla carriera, e l’anno successivo la prima statuetta per la migliore interpretazione, dopo una serie di ben 10 nominations.

Una biografia che non nasconde i problemi dell’attore con l’alcol ed il rapporto difficile con il figlio maggiore, morto per overdose all’età di 28 anni, ma che consegna a chi la legge la lezione di un uomo che non ha mai smesso di raccogliere nuove sfide e di misurarsi su terreni diversi con coraggio ed umiltà. Un uomo che ha fatto del proprio impegno sociale ed umanitario un tratto distintivo, assicurandosi di dividere generosamente con gli altri ogni eccesso di denaro che nel corso del tempo si era ritrovato in mano. «Ciò che vorrei davvero scritto nella mia tomba», disse una volta, «è che sono stato parte della mia epoca». E lo è stato davvero.

Hereafter

Hereafter

Ci sono film che ci colpiscono in tempo reale, ce ne sono altri che sedimentano e fioriscono dentro. Hereafter appartiene a questa seconda categoria. Clint Eastwood torna ad occuparsi di sentimenti, e lo fa trattando il difficile e spinoso tema dell’aldilà. Un operaio americano con doti da sensitivo, una giornalista francese  morta per qualche istante durante lo Tsunami, ed un ragazzino londinese che ha perso il gemello in un incidente sono protagonisti di tre storie distinte, ognuna delle quali ha che vedere con la solitudine, il dolore, la perdita, e la ricerca di un senso per questa vita. Tre esperienze destinate ad intrecciarsi nel finale ed in quel momento a trovare una soluzione ai sensi di colpa, alle frustrazioni, ai tormenti che le hanno accompagnate sino ad allora. Un epilogo poetico e toccante che ricompone le tessere di un mosaico infine intero ed aperto alla possibilità e alla speranza.

Hereafter è una pellicola al tempo stesso intimista ed universale che tratta con grande misura ma con estrema intensità un argomento che in mani altrui sarebbe diventato uno dei tanti film di genere, sospeso fra il patetismo ed il paranormale. Invece il regista 80enne si in accosta in modo delicato e laico ai temi trattati, guardandosi bene dal fornire delle risposte, ma concentrandosi piuttosto sulle emozioni profonde dei personaggi a cui resta sempre vicino. La sceneggiatura, ricca di risvolti, poggia su un impianto decisamente classico nella scansione del ritmo narrativo. Il cast, su cui svetta un Matt Damon mai così bravo, è efficace. Il risultato è una riflessione – insieme semplice ed altissima – sul rapporto fra vita e morte, ma soprattutto fra passato, presente e futuro [non a caso lo script presenta diversi riferimenti a Charles Dickens] e sull’importanza dell’amore come centro attorno cui ruotare il “qui ed ora” non più condizionato dal passato e finalmente privo di paure per il domani.

Il 2010 al Cinema

Il 2010 al Cinema

Questa stagione ci ha regalato due capolavori che curiosamente presentano più di un aspetto in comune. Entrambi hanno come protagonista Leonardo Di Caprio ed entrambi condividono la stessa straordinaria capacità di indagare sul rapporto fra realtà e sogno. Ognuno a modo proprio, Christopher Nolan con Inception e Martin Scorsese con Shutter Island, si muovono sul terreno incerto e confuso che separa la verità dall’immaginazione, riuscendo – cosa non più così comune nel cinema americano degli ultimi anni – a sposare autorialità ad intrattenimento. Al terzo e al quarto posto della mia personale top five dei film usciti nel 2010 si trova un’altra coppia di pellicole dirette – anche questa volta – da un regista della vecchia generazione e da uno della nuova. Roman Polanski con Un uomo nell’ombra firma un thriller solidissimo come pochi negli ultimi decenni, dalle atmosfere cupe ed opprimenti, in cui lo smarrimento dell’uomo comune di fronte ad un intrigo internazionale rimanda al miglior Hitchcock. David Fincher realizza The social network, una poderosa storia di solitudine e rivalsa tra le pieghe del più importante fenomeno di costume di questi ultimi anni. Non fa neppure più notizia l’ennesimo gioiello in casa Pixar, che anche quest’anno con Toy Story 3 propone la magia di una storia che sa parlare al cuore di tutti, grandi e piccini.

Il 2010 è stato un anno orribile per le tante morti che hanno colpito il mondo del cinema. Quel che restava della commedia all’italiana è stato falciato via: Mario Monicelli, i grandi sceneggiatori Furio Scarpelli e Suso Cecchi d’Amico, il produttore Dino de Laurentiis ed il “solito ignoto” Tiberio Murgia. Sono morti i due registi francesi Eric Rohmer e Claude Chabrol. In America ci hanno lasciato Dennis Hopper, Tony Curtis, Jill Clayburgh, Leslie Nielsen, Tom Bosley e i registi Arthur Penn e Blake Edwards. Per non parlare di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini che, pur avendo solo sfiorato il cinema, sono da considerarsi due pietre miliari del mondo dello spettacolo italiano.

Se ne va il papà della Pantera Rosa

Se ne va il papà della Pantera Rosa

«Un gigante del divertimento, uno scienziato dell’allegria». Cosi’ Roberto Benigni ricorda Blake Edwards, morto due giorni fa a 88 anni. Basterebbero tre titoli per comprendere la statura del regista e sceneggiatore: Colazione da Tiffany, La Pantera Rosa e Hollywood Party. Accanto a questi gioielli, la formidabile filmografia di Edwards annovera pellicole di grande qualità, come Operazione Sottoveste, I giorni del vino e delle rose, La grande corsa, Dieci, Victor Victoria. Pur misurandosi nei generi più disparati, il suo nome è essenzialmente legato alla commedia, che – assimilata la lezione di Maestri come Hawks, Lubitsch e Wilder – il regista declina in tutte le sue varianti: dalla commedia sentimentale e sofisticata, allo slapstick e alla commedia demenziale, non tralasciando una feroce critica di costume.

Insieme al genio trasformista di Peter Sellers, crea nel 1963 una delle maschere cinematografiche più amate di sempre: lo sfortunato e maldestro Ispettore Clouseau, che i due porteranno sullo schermo per ben sette volte. Nel 1969 sposa Julie Andrews, la più grande star di musical del tempo, che che gli resta accanto sino alla fine.