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Categoria: cinema

Il marcio della politica secondo Clooney

Il marcio della politica secondo Clooney

Durante le Idi di marzo del 44 a.C. Giulio Cesare venne pugnalato in Senato da chi considerava un amico. Da allora il mondo politico non è cambiato molto: corruzione, brama di potere, intrighi, tradimenti sono ancora all’ordine del giorno. Il nuovo film di George Clooney racconta la perdita dell’innocenza di un giovane addetto stampa in forza allo staff di uno dei candidati presidenziali democratici, il quale – coinvolto negli inganni e nelle nefandezze che pervadono l’ambiente – ne esce irrimediabilmente cambiato. Il percorso che lo porta dall’idealismo iniziale al cinismo e alla spregiudicatezza, è descritto dal regista senza moralismi, in modo asciutto ed elegante.

Le Idi di Marzo è un lavoro impeccabile, con un robusto impianto teatrale, dialoghi brillanti ed un cast all star, all’interno del quale George Clooney si ritaglia il ruolo del candidato. Ryan Gosling è un protagonista credibile e  Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Evan Rachel Wood e Marisa Tomei, degli splendidi comprimari. E’ un film in cui non ci sono eroi, nè personaggi positivi. Nessuno riesce a salvarsi da una deriva morale in cui lealtà ed integrità sono valori svuotati dal loro significato, e l’egoismo, la manipolazione e la sopraffazione costituiscono il vero motore propulsivo. La politica è una cosa sporca e chiunque voglia praticarla non può che sporcarvisi le mani. Un film che prende le mosse dal miglior cinema di impegno sociale degli Anni 70, pur immergendosi nella contemporaneità della politica americana ed in particolare nel clima di disillusione rispetto alla Presidenza Obama.

J.Edgar

J.Edgar

Difficilissimo condensare in due ore la vita di una figura così complessa e controversa come quella di J. Edgar Hoover. Il direttore dell’FBI che ha attraversato da protagonista 50 anni della recente storia americana, sotto ben 8 diverse presidenze. Clint Eastwood sceglie di prediligire gli aspetti privati alla dimensione pubblica del personaggio, finendo così per non dargli sufficiente spessore o perlomeno per affrontare con superficialità alcuni snodi che forse avrebbero avuto bisogno di un’altra sottolineatura. La narrazione, non sempre equilibrata, è ulteriormente appesantita da continui ed inutili salti temporali che finiscono col far perdere di vista il quadro generale.

In questo contesto, il film risulta a tratti freddo ed irrisolto, esattamente come il personaggio descritto. Un uomo potentissimo, eppure privo di una vita personale, succube di una madre autoritaria e represso da un’omosessualità mai accettata. A fronte dell’eccessivo materiale di utilizzare – si va dalla lotta contro gli anarchici e i comunisti, passando per la cattura di Dillinger, il rapimento Lindbergh, la rivoluzione tecnologica dell’FBI, i vari intrighi di potere, via via sino al pessimo rapporto con Bob Kennedy, l’attentato di Dallas, l’ossessione contro Martin Luther King e la presa del potere da parte di Richard Nixon – Eastwood riesce comunque a farsi apprezzare per il rigore della ricostruzione scenica e per la scelta di un eccellente cast. In particolare, Leonardo Di Caprio – che si prenota per una probabile vittoria ai prossimi Oscar – spesso sepolto sotto chili di trucco per apparire un credibile settantenne, ne è un protagonista efficace e convincente.

Il 2011 al Cinema

Il 2011 al Cinema

Per quanto mi riguarda, a differenza degli anni precedenti, il 2011 non ha prodotto alcun capolavoro. Però ci son stati diversi piccoli/grandi gioielli [alcuni dei quali non compresi da tutti] che hanno costellato le mie personali visioni negli ultimi 12 mesi. Chissà se è un caso che 3 dei 5 registi in cima alla mia top five siano ultrasettantacinquenni. E’ comunque un fatto che Woody Allen, Clint Eastwood e Roman Polanski continuino a realizzare pellicole di pregevole fattura a dispetto dell’età e delle lunghissime carriere. In quest’ottica è da rimarcare anche la formidabile prova dell’ottantaseienne Michel Piccoli che contribuisce non poco al successo e a alla qualità dell’ultimo lavoro di Nanni Moretti. Invece J.J. Abrams ha solo 45 anni, eppure dirige il suo film più riuscito rielaborando a proprio modo atmosfere, tematiche e situazioni tipiche di pellicole di 30 anni fa. 

E’ forse il segno che il Cinema manchi di nuova linfa vitale? Non credo, anche se la pletora di sceneggiature prelevate dal mondo del fumetto o da quello dei videogiochi, di remake, prequel, sequel e di saghe composte da almeno 4 o 5 episodi, denota sicuramente scarsa propensione [o coraggio] a proporre prodotti non meno che sicuri dal punto di vista commerciale. Dimenticando così che il pubblico non va soltanto inseguito, ma anche educato.

Un altro film di Natale

Un altro film di Natale

Da buon cinefilo quale sono, il momento più bello delle feste natalizie – forse ancor di più che l’apertura dei regali – è quello in cui ci si riunisce per gustarsi un film di Natale. Non so quante volte ho visto e rivisto La vita è meravigliosa di Frank Capra, commuovendomi regolarmente per il suo messaggio di fondo: quello di non arrendersi mai, anche quando tutto intorno sembra crollare. Ma ci sono tanti altri film che nel corso del tempo hanno segnato la festa più importante dell’anno. La Febbre dell’Oro di Chaplin, Miracolo sulla 34° StradaLa Moglie del Vescovo, i classici della Disney e – in tempi più recenti – Mamma ho perso l’aereoElfPolar Express, A Christmas Carol, per citarne solo alcuni. 

Quest’anno l’elenco verrà arricchito da Il Figlio di Babbo Natale, appena uscito nelle sale cinematografiche. Il cartone animato è realizzato dalla inglese Aardman Animations, [qui per la prima volta in collaborazione con Sony Pictures Animation], famosa per le sue splendide pellicole con pupazzi in plastilina come Galline in fuga e Wallace & Gromit. Anche se questa volta la sua tradizionale tecnica in stop motion è stata rimpiazzata dalle più attuale Computer Grafica, la magia è rimasta intatta. Un confronto fra tradizione e modernità che fa da leitmotiv anche alle vicende del film. Difatti pure Babbo Natale si è convertito ai prodigi dell’high tech ed ogni anno, la notte del 24 dicembre, grazie ad una  sofisticatissima ed ipertecnologica astronave e ad un esercito di migliaia di laboriosi ed addestratissimi elfi, riesce nell’impresa di consegnare i regali a tutti i bimbi del mondo. Ma questa volta qualcosa va storto e spetterà al suo maldestro ma sensibile figlio riparare all’errore, riesumando una vecchia e gloriosa slitta, mandata in pensione proprio per far spazio alla supersonica nave spaziale. «Non volevamo dire che i metodi antichi fossero giusti e quelli moderni sbagliati – sottolinea la regista – Il punto è non è come lo si fa, ma perché». Un discorso che per l’appunto richiama la disputa tra vecchia e nuova animazione: non conta la tecnica, conta il risultato. E quest’ultimo nella fattispecie è sicuramente soddisfacente: il film è un’avventura divertente e tenera che riesce a trattare con originalità un argomento senz’altro abusato, e ciò – di questi tempi – è sicuramente un successo.

Midnight in Paris

Midnight in Paris

Midnight in Paris è un piccolo gioiello, in equilibrio perfetto fra romanticismo, poesia ed ironia. La storia è quella di Gil, uno scrittore di sceneggiature dozzinali con velleità da romanziere, che – durante un soggiorno a Parigi con la fidanzata con cui non ha nulla in comune – si rende conto di poter viaggiare nel tempo, trovandosi magicamente trasportato nella Ville Lumière degli anni ’20, dove incontra i suoi artisti più amati. Come accadeva ne La Rosa Purpurea del Cairo, l’unica via di fuga da una realtà insoddisfacente è la dimensione del sogno, e mentre nel film del 1985 Mia Farrow si rifugiava in un cinemino di periferia per dimenticare il suo misero quotidiano, qui l’ottimo Owen Wilson si tuffa nella magia dell’età dell’oro parigina. Dialoga di letteratura con Scott Fitzgerald e Hemingway, fa leggere il proprio romanzo a Gertrude Stein, suggerisce a Bunuel l’idea per uno dei suoi film più famosi, cena a  casa di Jean Cocteau, si imbatte in Dalì, e si invaghisce di una delle ex amanti di Picasso [un’incantevole Marion Cotillard]. Il piano onirico si mescola con quello reale e l’evasione diventa occasione per riflettere su se stesso e trovare il coraggio per seguire le proprie aspirazioni, anche se questo significa tagliare i ponti con la sicurezza di quanto conquistato fino ad allora.

Il nuovo film di Woody Allen è una riflessione elegante e piena di grazia sull’incapacità di vivere il presente. Una favola surreale e dolceamara dove l’amore – ancora una volta – è l’antidoto ad angoscie ed inquietudini. A cominciare dall’amore che il regista riversa nel raffigurare Parigi, senza mai relegarla nel clichè della cartolina. Per terminare con quello che il protagonista incontra, dopo aver finalmente compreso che il passato va metabolizzato senza alcuna mitizzazione. Il desiderio ossessivo di un altrove, una nostalgia che è una negazione, ci impediscono infatti di cogliere le opportunità di un presente che – come qualsiasi altra epoca – può regalarci aperture inattese e speranze di cambiamento. Sta a noi impegnarci nell’oggi per ottenere la nostra felicità.

Di Arte, Cinema, Noia, Malick e Von Trier

Di Arte, Cinema, Noia, Malick e Von Trier

Il film più brutto che ho visto quest’anno è The Tree of Life di Terrence Malick. Un autore con un’idea di cinema pretenziosa, infarcita di simbolismi più o meno criptici, di intellettualismi privi di consistenza, di filosofeggiamenti new-age sui massimi sistemi e sul senso dell’esistenza. Un Cinema che è inutile esercizio di pedanteria, e che stabilisce un rapporto diretto e proporzionale fra la [presunta] profondità delle tematiche affrontate e la pesantezza della pellicola che le sostiene. Un Cinema – e questo è l’aspetto peggiore – che non solo separa il regime narrativo da quello propriamente visivo, ma che si spinge a negare il primo a favore del secondo, finendo quindi col rigettare l’essenza stessa del Cinema, che è quella del racconto per immagini. L’Arte è comunicazione, ed il Cinema – che è l’Arte popolare per eccellenza – è intrattenimento. La sfida è intrattenere comunicando in modo intelligente e colto. Ma se invece si sceglie deliberatamente di fare a meno del ponte che deve sussistere fra autore e fruitore, o di realizzarlo in modo che questo arrivi ad un numero esiguo di persone, si compie un’operazione che è sleale e fasulla.

Il danese Lars Von Trier ha affermato che lui non fa cinema per gli altri, ma solo per se stesso. Ed è proprio questa sorta di assoluto onanismo autoriale ad ascrivere Melancholia allo stesso tipo di esercizio artificoso e velleitario descritto per Malick. I loro due lavori, entrambi inopinatamente premiati all’ultimo Festival di Cannes [miglior film Malick, migliore attrice Von Trier], presentano diversi aspetti comuni, oltre quello di avermi profondamente annoiato. Sia l’uno che l’altro mettono in parallelo il particolare della vita delle persone con l’universale dei grandi eventi astrali. E mentre Malick realizza uno sfinente videoclip a base di musica classica, Von Trier si impegna ad essere più narrativo, ma con risultati altrettanto deludenti. La sceneggiatura abbozzata e farraginosa non approfondisce mai nessuno snodo di una vicenda di per sè già oltremodo banale. Situazioni e dialoghi imbarazzanti sono nella migliore delle ipotesi frutto della dichiarata depressione del regista, se non dell’assunzione di sostanze forse lecite e forse no. Probabilmente le stesse che durante la conferenza stampa di presentazione del film lo hanno portato a sostenere di simpatizzare per Hitler.

This Must Be the Place

This Must Be the Place

Fra i suoi primi quattro film vi sono due capolavori. Ecco perchè è comprensibile entrare in sala con aspettative piuttosto alte. This Must Be the Place non ha la genialità narrativa de Il Divo, nè lo straordinario impatto emotivo de Le Conseguenze dell’Amore, eppure è un film che non si dimenticherà facilmente. Il nuovo lavoro di Paolo Sorrentino contiene gli stilemi tipici del suo Cinema. Ogni aspetto è studiato con estrema cura e realizzato con grande padronanza tecnica: inquadrature, movimenti di macchina, ambientazioni, fotografia, montaggio, colonna sonora, costruiscono una complessa ed avvolgente tessitura in cui viene privilegiata la “messa in scena”. E se da una parte questo innegabile virtuosismo consente al regista napoletano di affacciarsi per la prima volta ad un progetto internazionale senza la minima soggezione, dall’altra ne costituisce anche il suo limite, perchè finisce per mettere in secondo piano il racconto stesso.

La vicenda è quella di una rockstar cinquantenne ritiratasi dalle scene da oltre ventanni. A causa della morte del padre si reca a New York, punto di partenza per un viaggio di formazione nel cuore dell’America, alla ricerca dell’ex criminale nazista che ad Auschiwitz aveva umiliato il genitore. Uno spunto di notevole interesse che forse avrebbe meritato un risalto maggiore. Il risultato finale è comunque affascinante, anche grazie ad una prova magistrale di Sean Penn: con mise che ricorda da vicino quella di Robert Smith dei Cure, voce in falsetto, risatina ebete e andatura lentissima, definisce un personaggio da antologia, pierrot lunare, in equilibrio fra il malinconico e l’infantile.

Gli Anni 60 al Cinema

Gli Anni 60 al Cinema

Negli Anni 60 i grandi studios americani vivono un progressivo declino, che arriva ad assumere le proporzioni di una bancarotta. La televisione sottrae milioni di dollari al mondo del Cinema, costringendo le majors a licenziamenti di massa. Perdipiù questi sono anni in cui società e mercato subiscono profonde trasformazioni. Il cambiamento nei gusti degli spettatori è la molla che apre la strada ad una nuova generazione di registi, fra cui Stanley Kubrik [con capolavori come Il Dottor Stranamore e 2001: Odissea nello Spazio], Roman Polansky [Rosemary’s Baby e Repulsion] e Blake Edwards [Colazione da Tiffany, La Pantera Rosa, Hollywood Party]. Vecchi e gloriosi autori come Alfred Hitchcock, Billy Wilder e John Ford hanno giusto il tempo per alcuni straordinari colpi di coda [Psycho, Gli Uccelli, L’Appartamento e L’Uomo che uccise Liberty Valance] prima di essere soppiantati – a partire dalla seconda metà del decennio – da un nuovo linguaggio e da un processo di revisione dei classici, che solo qualche anno prima sarebbe stato impensabile.

Tali trasformazioni sono anche una reazione ai cambiamenti in atto in Europa. La Nouvelle Vague francese infatti esercita una notevole influenza sul cinema americano. Altrettanto si può dire a proposito del nuovo cinema d’autore italiano, guidato da registi come Fellini ed Antonioni, e del formidabile lavoro di Sergio Leone, in grado – da solo – di riscrivere completamente l’epopea del genere western. Tutto questo mentre la migliore commedia all’italiana [quella di Dino Risi e dei suoi Una Vita Difficile e Il Sorpasso, e quella dei vari Monicelli, Germi, Comencini, ecc.] guadagna una crescente considerazione internazionale.

Super 8

Super 8

Ohio, estate del 1979. Mentre stanno girando un filmino amatoriale, alcuni ragazzi assistono ad uno spaventoso incidente ferroviario che mette a repentaglio le loro vite e segna il destino della cittadina in cui vivono, trasformandola nel teatro di una serie di misteriosi eventi.

Il nuovo film di J.J.Abrams non è un semplice rimando al primo Spielberg [qui nelle vesti di produttore], ma è soprattutto un omaggio accorato al Cinema, inteso come Arte suprema del raccontare emozioni attraverso le immagini. Prendendo le mosse da situazioni e tematiche espresse in pellicole di culto come Incontri Ravvicinati, E.T., Stand Bye Me e I Goonies, Super 8 mette in campo tutta la straordinaria capacità narrativa ed il senso dello spettacolo dell’autore di Lost. Anche qui, come nella serie che ha rivoluzionato il mondo della televisione, c’è un enigma inspiegabile, una “scatola dei misteri” – come l’ha definita lo stesso Abrams – il cui contenuto viene svelato soltanto nel finale, lasciando al pubblico per quasi tutta la durata del film il compito emozionante di trovare delle risposte. Ed è proprio in questa capacità di coinvolgere ed incantare – frullando abilmente elementi autobiografici, citazionismo, avventura, fantascienza, sentimentalismo, romanzo di formazione e soprattutto amore per il Cinema – che si trova il valore aggiunto di Super 8. Manipolare l’immaginario di un’epoca ben precisa – quella che a cavallo fra gli Anni 70 e gli 80 ha portato il Cinema ad essere meno aderente alla realtà per abbracciare piuttosto la dimensione del sogno – riuscendo comunque a realizzare un film che facesse parte del nostro presente, è una scommessa ampiamente vinta. C’è sicuramente un pizzico di retorica di troppo, ma è di quella a cui ci si consegna di buon grado, lieti di lasciarsi scaldare il cuore. Super 8, per quanto imperfetto, è un piccolo gioiello, impreziosito dalla sorprendente bravura della protagonista femminile, la tredicenne Elle Fanning.

Carnage

Carnage

Carnage è una formidabile prova attoriale. Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz e John C. Reilly in stato di grazia, un’impeccabile sceneggiatura con dialoghi corrosivi e tempi perfetti, e una regia serrata ed incalzante dimostrano che si può realizzare un film eccellente pur ambientandolo fra 4 mura, senza stacchi temporali. Due coppie di genitori si incontrano per la prima volta in un appartamento di Manhattan dopo una violenta lite fra i rispettivi figli undicenni. Quella che inizia come una civilissima visita di cortesia con tanto di tortà, caffè e scambi di convenevoli, si trasforma ben presto in un gioco al massacro che non risparmia nessuno.

Il nuovo film di Roman Polanski è un’amarissima commedia che svela ciò che si cela dietro una “famiglia borghese” quando cadono le maschere del perbenismo e le convenzioni sociali. Ecco allora che fra i 4 personaggi nascono e si sfaldano repentine alleanze, dapprima tra una coppia e l’altra e poi tra i due sessi. Ci si attacca senza alcun ritegno, sembra che ci si comprenda per un attimo, salvo poi riprendere le reciproche ostilità. Se si considerano le sue ben note vicissitudini personali, è facile scorgere nel lavoro del regista [che rispetto alla piece teatrale da cui il film è tratto sposta l’azione da Parigi a New York] una ferocissima critica alla società americana, così puritana e moralista in apparenza, ma che sotto il tappeto nasconde pregiudizi, vizi e contraddizioni.