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Categoria: cinema

Marilyn!

Marilyn!

Il 5 agosto di 50 anni fa moriva Marilyn Monroe, la più grande icona femminile del ventesimo secolo. Attorno alla sua scomparsa si sono versati fiumi di inchiostro con le ipotesi e le congetture più fantasiose. «Chissà perchè», disse l’attrice in un’intervista un anno prima della morte, «i giornalisti, i biografi, scrivono di me come di un’orfana: forse avvolgere di un mistero più fitto e più grande la mia vita serve alle case di produzione, ai registi, ai manager, ai giornali e a tutti coloro che attorno a me crescono, si arricchiscono, si moltiplicano…», dimostrando di conoscere alla perfezione i meccanismi che media e produttori avevano adottato nei suoi confronti. Il mistero più grande – quello che riguarda la sua fine, avvenuta a soli 36 anni – sarebbe arrivato  da lì a pochi mesi e sarebbe stato in larga parte creato ad arte per costruire intorno a Norma Jeane Baker [questo il suo vero nome] la leggenda che ammanta tutto quel che è, e tuttora rappresenta Marilyn Monroe.

Qualcuno una volta disse che Marilyn ha incarnato le due più forti emozioni umane: la speranza e la paura. E forse il successo eterno della Diva si gioca proprio intorno a spinte contrastanti. Come mai nessun’altra prima di lei, infatti, rappresentò nell’immaginario popolare l’idea di una donna adulta, consapevole della propria sessualità vissuta in modo assolutamente genuino, che però coesisteva insieme alle fragilità tipiche dell’infanzia e dell’adolescenza. Tale condizione si rifletteva anche nel suo lavoro: come attrice – difatti – fu sempre combattuta fra l’insicurezza ed un notevolissimo, istintivo talento. Una cosa è certa: la complessa, introspettiva, delicata e tormentata personalità di Norma Jeane, quella per cui fu costretta a frequentare psichiatri e case di cura, era quanto di più distante dalla mondanità e dal glamour della Diva. Indubbiamente la vera Marilyn fu proprio quella del bisogno d’amore disatteso, delle amare confessioni e delle poesie strazianti: «Mi aprono… e non trovano assolutamente nulla… è uscita soltanto segatura così sottile – come da una bambola di pezza – e la segatura si sparge sul pavimento e il tavolo».

Marilyn

I Classici del Cinema – Quarto Potere

I Classici del Cinema – Quarto Potere

L’American Film Institute lo ha nominato il miglior film di tutti i tempi. La leggenda di Quarto Potere [1940] nasce ancor prima della sua realizzazione, quando ad un giovanissimo regista, giunto dal teatro e dalla radio, la RKO decide di concedere una libertà d’espressione senza precedenti. Il magnate dell’editoria William Hearst, alla cui vita il film si ispira, muove mari e monti per fermare la realizzazione della pellicola e, non riuscendoci, mette in campo il suo enorme potere mediatico per tentare di screditarla. Ma al di là di questo, Quarto potere è di straordinario interesse per innumerevoli ragioni. Il film narra una grande storia: Charles Foster Kane [interpretato in modo brillante dallo stesso Orson Welles] è nato povero, ma diventa ricco grazie ad una miniera d’oro ricevuta in eredità. Inizia a mettere in piedi un impero di giornali e radio populisti, candidandosi anche a governatore. La conquista di un potere più solido però non riesce e Kane diventa sempre più dispotico e misantropo, fino a morire in solitudine in una sorta di castello mai terminato.

Il film inizia con la sua morte e con la sua ultima enigmatica parola: “Rosabella“, a cui un gruppo di reporter cerca di dar conto intervistando molte delle conoscenze del magnate. Tutta la vicenda è quindi raccontata per flashback, secondo il punto di vista degli intervistati, in una complessità narrativa assolutamente inedita per Hollywood. Inoltre una vera rivoluzione del film sta nelle sue riprese: prima di Quarto Potere lo stile fotografico vigente si basava sull’uso di un’illuminazione diffusa e del flou. Una tipica sequenza consisteva in un campo lungo o medio introduttivo, inframmezzato da primi piani in cui venivano mostrati i dettagli. Welles invece, attraverso una nuova tecnologia per cui il primo piano, il mezzo campo e lo sfondo risultano tutti a fuoco nello stesso tempo, consente allo spettatore di scrutare ogni parte dell’inquadratura come mai successo prima di allora. L’unicità di questo capolavoro è quindi data dall’uso radicalmente nuovo delle tecniche di narrazione, dalla fotografia, agli effetti del sonoro, al montaggio.

Cosa Piove dal Cielo?

Cosa Piove dal Cielo?

Roberto è un ferramenta di Buenos Aires intorno ai 50. La prematura morte dei genitori e l’esperienza della guerra delle Falkland lo hanno reso un tipo solitario e pieno di risentimento, senza quasi contatti col mondo esterno e privo di aspettative per il futuro. Ha un solo passatempo: collezionare ritagli di articoli di giornali riguardanti notizie assurde ed incredibili. Lo fa per dimostrare a se stesso che la vita è senza senso e che i rapporti umani sono troppo fragili per essere vissuti. Un giorno si imbatte in Jun, un ragazzo cinese che ha lasciato il suo paese dopo aver subito una tragedia [la fidanzata è morta, schiacciata da una mucca precipitata dal cielo] ed è alla ricerca dello zio che vive da tempo in Argentina. Incapace di comunicare e senza soldi, viene ospitato da Roberto, che però spera di sbarazzarsene quanto prima. La convivenza forzata si fa sempre più pesante, fino a quando il ferramenta – per un curioso gioco del destino – capirà che la vita gli ha regalato un’opportunità meravigliosa che non può ignorare.

Sembra narrare una vicenda bizzara e ricca di fantasia, eppure il film scritto e diretto da Sebastián Borenszstein – vincitore del festival di Roma, dove si è aggiudicato sia il premio della critica che quello del pubblico – si basa su una storia vera. La pellicola è una bellissima commedia dolce amara, divertente ed originale, dai tratti surreali che ricordano un pò lo stile del Jean-Pierre Jeunet di Ameliè. L’attore argentino Ricardo Darin, già protagonista de Il Segreto dei Suoi Occhi, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero nel 2010, è semplicemente straordinario per espressività e misura. Una nota sul titolo italiano che una volta tanto è più azzeccato di quello originale [Un Cuento Chino]. Ciò che piove dal cielo, infatti, non si riferisce soltanto alla mucca che letteralmente precipita sulla barca del povero Jun, o allo stesso Jun che arriva dal nulla a rivoluzionare l’esistenza di Roberto, ma anche e soprattutto all’imprevedibilità della vita stessa. Autentico motore che sa dare un senso a quel che apparentemente è privo di logica.

I Classici del Cinema – Oltre il Giardino

I Classici del Cinema – Oltre il Giardino

Quando nel 1971 il romanzo Oltre il Giardino di Jerzy Kosinski viene pubblicato, Peter Sellers ne è letteralmente folgorato, tanto da inviare al suo autore un telegramma che dice «Disponibile nel mio giardino o fuori» con a fianco il numero di telefono. Il libro, una graffiante satira contro il potere politico fortemente condizionato dal fascino seduttivo della televisione, racconta le gesta di Chance, un cinquantenne analfabeta e ritardato che non è mai uscito fuori dalla villa di cui curava il giardino. La morte del suo vecchio padrone lo porta in mezzo alla strada, in un mondo che conosce solo attraverso i programmi televisivi. Un banale incidente lo mette in contatto con un anziano Senatore. Il candore di Chance viene scambiato per saggezza profonda ed alcune sue considerazioni casuali interpretate come acute riflessioni sulla condizione umana. Di equivoco in equivoco diventa una celebrità nazionale e si ritrova ad un passo dalla candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti.

Sellers insegue il sogno di portare sul grande schermo il romanzo di Kosinski per ben 8 anni, fino a quando – nel 1979 – il progetto si concretizza. La sceneggiatura è affidata allo stesso scrittore, mentre la regia viene curata da Hal Ashby, uno dei cineasti più rappresentativi ed intelligenti della New Hollywod. In mani altrui Oltre il Giardino avrebbe corso il rischio di trasformarsi in una parabola sciocca o in fiacca critica della credulità umana. Ma la sapiente e misurata direzione di Ashby, con la sua atmosfera tranquilla e crepuscolare, e l’immensa performance di Peter Sellers costituiscono l’innervatura di un lavoro delicatissimo, surreale e poetico insieme, connotato da una soave leggerezza che sa farsi sottile metafora di un mondo che – avendo smarrito i propri riferimenti culturali – non sa più distinguere il falso dal vero, o l’ignoranza dalla sapienza. Impossibile immaginare qualcun altro nei panni di Chance. Ad un personaggio che ha amato moltissimo, Sellers regala la sua interpretazione più memorabile. Giocando di sottrazione, l’attore inglese diventa una maschera compassata, apparentemente inespressiva, folle e lunare eppure credibilissima.

Gli Anni 80 al Cinema

Gli Anni 80 al Cinema

Altrettanto repentinamente di com’era nata, la New Hollywood conosce la sua fine all’inizio degli Anni 80. Il grande successo economico di film come Guerre Stellari e la conseguente nascita del fenomeno dei blockbuster aveva già da qualche anno spostato l’attenzione da lavori più autoriali verso pellicole maggiormente sfruttabili a livello commerciale. Il clamoroso fallimento del costosissimo I Cancelli dei Cielo di Michael Cimino del 1981 pone poi una pietra tombale sul cosidetto “Director System”. Non esistono più gruppi di registi riuniti intorno ad un manifesto di intenti, o legati da principi estetici e da categorie artistiche definite. C’è per contro una notevole frammentazione per cui ogni autore segue la propria strada. Le case produttrici si riappropriano del potere decisionale e del controllo sul lavoro dei registi, ripristinando un rigido sistema industriale, all’interno del quale rafforzarsi attraverso l’unione in compagnie con altri settori commerciali, dove poter sviluppare l’altamente remunerativa pratica del merchandising. Con queste premesse il Cinema Postmoderno che si afferma negli Anni 80 non può certo far leva sulla profondità dei contenuti, ma si concentra prevalentemente sul proprio potenziale seduttivo, ponendo l’accento sugli aspetti scenografici, sull’uso degli effetti speciali, sulle innovazioni tecnologiche. Mentre negli Anni 70 la realtà con le sue contraddizioni era al centro del racconto filmico, negli 80 il cinema torna ad essere illusione, fantasia, avventura. Si ripescano temi e forme del passato, in un procedimento di ibridazione di generi e stili. Un’operazione che mira a citare, de-costruire e riscrivere i classici, secondo modalità che hanno perso ogni caratteristica del tipico racconto di genere per assumere connotazioni di frammentazione e commistione. Blade Runner di Ridley Scott, C’era una Volta in America di Sergio Leone, e Gli Intoccabili di Brian De Palma ne costituiscono gli esempi più significativi.

Quanto al cinema italiano, gli Anni 80 raffigurano un periodo in cui ricostruire un’identità perduta, ricercare nuovi contenuti e tentare una rifondazione. Bertolucci e Tornatore conquistano l’Oscar, rispettivamente con L’Ultimo Imperatore e Nuovo Cinema Paradiso. La comicità popolare trova nuova linfa con autori come Verdone, Benigni e Troisi. Ma è con Nanni Moretti, capace di rappresentare contenuti importanti con ironia e leggerezza, che si determina il miglior connubio fra autorialità e commedia. 

I 100 anni della Universal

I 100 anni della Universal

Era il 30 aprile 1912, esattamente 100 anni fa, quando un ex commerciante in tessuti di origine tedesca fondò la Universal Film Company, la più antica casa di produzione cinematografica. Carl Laemmle qualche anno prima era rimasto affascinato dalla popolarità dei cinema Nickelodeon, dove per un nickel – per l’appunto – venivano proiettati dei cortometraggi di vario genere. Venduti i suoi tessuti, aveva acquistato una di queste sale, iniziando così la sua prodigiosa carriera nell’ambito della Settima Arte. Nel 1915 Laemmle sbalordì Hollywood inaugurando Universal City, un appezzamento di 230 acri trasformato in una vera e propria città del cinema, dotata di scuole, polizia ed ospedali propri, oltre che naturalmente di una serie di set fissi. 

Contrariamente ad altre case cinematografiche dell’epoca che tenevano nascosti i nomi dei loro attori per evitare rivendicazioni salariali, Laemmle credeva molto nel divismo e lavorò duro per rendere sempre più noti gli attori che lavoravano per lui. E così negli anni del muto portò alla fama internazionale star come Rodolfo Valentino, Mary Pickford e Lon Chaney. Con l’avvento del sonoro la Universal si dedicò in particolare alla produzione di un nuovo ciclo di film horror con divi del calibro di Bela Lugosi e Boris Karloff, creando dal nulla – con Dracula, Frankenstein, la Mummia e tanti altri “mostri” – un immaginario cinematografico che è vivissimo ancora adesso.  Successivamente sarebbero arrivati Alfred Hitchcock e Steven Spielberg, Martin ScorsesePeter Jackson e molti altri. E poi ancora capolavori come Il Buio oltre la Siepe, Gli Uccelli, La Stangata, Lo Squalo, Il Cacciatore e La mia Africa. 100 anni di emozioni, sogni e magie, con l’inconfondibile logo della Universal [messo a lucido per l’occasione] a richiamare alla mente quell’istante carico di attese che precede l’inizio di un film e che ci prepara alla più grande suggestione di sempre.

To Rome with Love

To Rome with Love

Poter assistere ad un nuovo film di Woody Allen dopo solo 4 mesi dal precedente è un regalo. Un regalo che diventa addirittura unico, quando poi si considera che la pellicola è stata girata a Roma e segna il ritorno del regista newyorchese davanti alla macchina da presa dopo ben 6 anni e – per le cose di casa nostra – dopo la scomparsa di Oreste Lionello. Iniziamo allora col dire che Leo Gullotta, a cui è stata affidata la titanica impresa di sostituire la voce italiana di Allen da oltre 40 anni a questa parte, se la cava dignitosamente e riesce a non uscire stritolato dall’inevitabile confronto col timbro inconfondibile che Lionello aveva donato all’autore di Manhattan.

To Rome with Love non è fra le cose migliori del tour europeo di Allen [penso a Match Point e Midnight in Paris, ma anche a Scoop], però si tratta comunque di un lavoro godibile, abbellito da un cast ricchissimo. E’ una commedia simpatica e spensierata, virata verso una cifra surreale, forte di uno degli attori migliori nello specifico. Ma è proprio da Roberto Benigni che arriva un’inaspettata nota di scontento. L’attore toscano infatti appare troppo legato e privo della sua vena più graffiante. Il film gira attorno a 4 differenti storie a cui le bellezze incantevoli della città eterna fanno da sfondo. Roma non viene ritratta con una lente necessariamente aderente alla realtà [come del resto già successo con Londra, Barcellona, Parigi, e la stessa New York], ma così come si lascia ammirare dalla sensibilità speciale e dagli occhi sinceri di un regista americano. Allen tiene per sè il meglio ed il suo episodio è quello più divertente. In effetti basta vedere il suo volto, sospeso fra la goffaggine e lo sconforto, ed ammirare la sua straordinaria mimica facciale perchè un film non propriamente indimenticabile diventi un appuntamento imperdibile. 

Romanzo di una strage

Romanzo di una strage

«Il vero senso del film è il suo tentativo di spiegare ai ragazzi d’oggi cos’è stato quel tempo e quell’età, ma non mi sorprendo che chi l’abbia vissuta possa criticarlo. Me l’aspetto, l’ho messo in conto». Così Marco Tullio Giordana sulle  polemiche che – come ormai accade a qualsiasi film sugli Anni di Piombo, o che più genericamente si occupi della storia contemporanea di questo Paese – hanno accompagnato Romanzo di una Strage. Il nuovo lavoro del regista di I Cento Passi e La Meglio Gioventù racconta gli oscuri retroscena dell’attentato di Piazza Fontana del 1969, uno dei più tragici ed ancora insoluti avvenimenti che l’Italia abbia dovuto affrontare e che è costato la vita a 17 persone.

Limitandosi ad analizzare gli aspetti eminentemente filmici ed accantonando quelli attinenti alla ricostruzione dei fatti [contestata da diversi protagonisti della vicenda, fra cui il giudice D’ambrosio], la cui veridicità va comunque pretesa da ben altre sedi, Romanzo di una Strage è una scommessa vinta. La pellicola convince ed avvince lo spettatore, forte del provato mestiere del regista e della bravura del cast, su cui spiccano Pierfrancesco Favino nei panni dell’anarchico Pinelli, Valerio Mastrandea in quelli del commissario Calabresi e Fabrizio Gifuni in quelli dell’allora Ministro degli Esteri, Aldo Moro. Un film sicuramente complesso, perchè complesse e torbide sono le vicende che narra, legate alle indagini della Questura di Milano, inizialmente convinta della matrice anarchica della strage, che poi però dovrà fare i conti – fra mille ostacoli, coperture e depistaggi –  con un insieme di indizi che porta ad una cospirazione fra neonazisti veneti e settori deviati dei servizi segreti. Si tratta comunque di un lavoro che – dato l’assunto iniziale – svolge ottimamente l’importante compito didattico che si era prefisso. 

10 anni senza Billy

10 anni senza Billy

Il 27 marzo di 10 anni fa ci lasciava uno dei più grandi registi e sceneggiatori di sempre. Un uomo che una volta riassunse la sua carriera in modo folgorante: «Ho solo fatto i film che avrei voluto vedere». Ma cosa sarebbe stata la Settima Arte senza questi film? Senza il genio dissacrante di Billy Wilder? C’è infatti lui dietro alcune delle immagini più iconiche o delle frasi più memorabili della Storia del Cinema: da Marylin Monroe col famoso vestito bianco svolazzante sulla grata della metropolitana in Quando la Moglie è in Vacanza, a Jack Lemmon e Tony Curtis musicisti travestiti in A Qualcuno Piace Caldo, a William Holden cadavere galleggiante nella piscina della diva del muto Gloria Swanson in Viale del Tramonto. E l’elenco potrebbe continuare ancora. E’ curioso come un regista così vicino alla commedia, i cui lavori sono caratterizzati da personaggi brillanti e dialoghi scoppiettanti, abbia frequentato con immutata bravura i generi più disparati, spesso forzando i limiti della censura con una provocatoria scelta di soggetti, fra i quali l’adulterio nel 1944 con La Fiamma del Peccato, l’alcolismo nel 1945 con Giorni perduti, la prostituzione maschile nel 1950 sempre con Viale del Tramonto, il cinismo dei media con L’Asso nella Manica un anno dopo. 

«Per dirigere una buona commedia bisogna essere molto seri» disse una volta, ed è proprio questo suo rigore, questo disincanto di uomo venuto da un Europa minacciata dal nazismo che rende fondamentale la sua figura. Un uomo che ha interpretato il suo ruolo con estrema consapevolezza, non rinunciando mai ad una buona dose di ironia. La stessa che lo ha portato a far scrivere sulla sua lapide:  «Sono uno scrittore, ma in fondo nessuno è perfetto».

I Classici del Cinema – La Grande Guerra

I Classici del Cinema – La Grande Guerra

Alberto Sordi e Vittorio Gassman sono una coppia di soldati cialtroni e sfaticati, tipici esempi di lavativi che verso la fine della Prima Guerra Mondiale si fanno simbolo di un esercito decimato ed avvilito. Dopo una serie di tragicomiche peripezie in cui cercano soltanto di evitare i pericoli del conflitto, vengono catturati dagli austriaci, i quali li minacciano di morte qualora non forniscano preziose informazioni. Stanno per cedere, quando di fronte al disprezzo verso il coraggio degli italiani dell’ufficiale austriaco che li interroga – «Gli italiani conoscono un solo fegato, quello con le cipolle che fanno a Venezia» – in un sussulto di dignità ed orgoglio nazionale, decidono di tacere – «E allora senti un po’, visto che parli così… Mi te disi propi un bel nient! Hai capito? Facia de merda!» – finendo così per essere fucilati.

Ne La Grande Guerra [1959] il conflitto non si limita a fungere da semplice cornice, ma è – a tutti gli effetti – un elemento di primo piano della vicenda. Mario Monicelli, grazie anche ai considerevoli mezzi messi a disposizione dal produttore Dino De Laurentiis, può fare uso di grandi scene di massa con un elevato numero di comparse, esaltando così una accuratissima ricostruzione storica. La sceneggiatura che mescola sapientemente ironia e comicità a passaggi amari ed altamente drammatici, incontra – ancor prima che la pellicola esca nelle sale – le feroci polemiche dell’ambiente politico, che stupidamente teme che il film infanghi la memoria dei caduti. Invece il lavoro del regista viareggino è uno splendido affresco corale, in grado di mostrare la guerra fuori da ogni retorica, dal punto di vista della trincea e dei soldati. Un’acuta riflessione storica, che demitizza la visione patinata e romantica della battaglia e dell’eroismo. «Altro che retorica e patriottismo» dichiara Monicelli «i soldati italiani erano una massa di straccioni che si spulciavano a vicenda. In fondo la guerra l’abbiamo vinta perchè austriaci e tedeschi decisero di non sopportare più tutte quelle perdite umane. Però né noi né i francesi abbiamo mai vinto una battaglia. Ce l’abbiamo fatta perchè i poveri cafoni analfabeti chiamati alle armi dal nostro Mezzogiorno vivevano come animali, in condizioni ancora peggiori di quelle dell’esercito, dunque perfino la vita al fronte poteva sembrare un miglioramento. Ma questo allora non lo aveva ancora raccontato nessuno». La contaminazione fra commedia e dramma – mai così felice come in questo capolavoro assoluto del Cinema Italiano, vincitore del Leone d’oro a Venezia – è resa indimenticabile dalla maestosa prova di Sordi e Gassman, coadiuvati da un parterre di formidabili comprimari, fra i quali Romolo Valli, Silvana Mangano, Folco Lulli e Tiberio Murgia.