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Magic in the Moonlight

Magic in the Moonlight

Al centro della storia di questo nuovo lavoro di Woody Allen c’è un prestigiatore di fama internazionale chiamato da un amico e collega a smascherare una sedicente medium. Ancora una volta la trama serve solo da pretesto al regista newyorchese per mettere in scena se stesso. E’ facilissimo infatti trovare nei panni del personaggio interpretato da Colin Firth gli aspetti più tipicamente alleniani. Siamo di nuovo dalle parti di un artista affermato, ma depresso e disincantato nei confronti della vita. Razionale fino al cinismo, brillante ancorchè misantropo, che si imbatte nel’amore di una donna molto più giovane di lui. Lo sviluppo della storia è prevedibile. La sceneggiatura è priva di guizzi, le battute fulminanti latitano e i due protagonisti non raggiunguno mai un alto livello di empatia con il pubblico.

Il tema è quello trattato – in modo migliore – già molte altre volte: «l’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira». Sono infatti coloro che accettano di vivere nell’illusione, gli unici capaci di godersi l’esistenza anche solo per un istante. La vita è miseria e solitudine, ma se si cede al sogno, alla magia, alla speranza, allora si può persino trovare la felicità. La conclusione è quella di sempre: l’amore – anche se è un sentimento effimero – resta in cima alla famosa lista di cose per cui vale la pena vivere. In fondo non importa se sia vero oppure no, quel che conta è “che funzioni”. Un Allen sicuramente minore, anche se – vale la pena ricordarlo – comunque al di sopra di tanti film di plastica, superficiali e fracassoni, di cui sono piene oggigiorno le sale cinematografiche.

To Rome with Love

To Rome with Love

Poter assistere ad un nuovo film di Woody Allen dopo solo 4 mesi dal precedente è un regalo. Un regalo che diventa addirittura unico, quando poi si considera che la pellicola è stata girata a Roma e segna il ritorno del regista newyorchese davanti alla macchina da presa dopo ben 6 anni e – per le cose di casa nostra – dopo la scomparsa di Oreste Lionello. Iniziamo allora col dire che Leo Gullotta, a cui è stata affidata la titanica impresa di sostituire la voce italiana di Allen da oltre 40 anni a questa parte, se la cava dignitosamente e riesce a non uscire stritolato dall’inevitabile confronto col timbro inconfondibile che Lionello aveva donato all’autore di Manhattan.

To Rome with Love non è fra le cose migliori del tour europeo di Allen [penso a Match Point e Midnight in Paris, ma anche a Scoop], però si tratta comunque di un lavoro godibile, abbellito da un cast ricchissimo. E’ una commedia simpatica e spensierata, virata verso una cifra surreale, forte di uno degli attori migliori nello specifico. Ma è proprio da Roberto Benigni che arriva un’inaspettata nota di scontento. L’attore toscano infatti appare troppo legato e privo della sua vena più graffiante. Il film gira attorno a 4 differenti storie a cui le bellezze incantevoli della città eterna fanno da sfondo. Roma non viene ritratta con una lente necessariamente aderente alla realtà [come del resto già successo con Londra, Barcellona, Parigi, e la stessa New York], ma così come si lascia ammirare dalla sensibilità speciale e dagli occhi sinceri di un regista americano. Allen tiene per sè il meglio ed il suo episodio è quello più divertente. In effetti basta vedere il suo volto, sospeso fra la goffaggine e lo sconforto, ed ammirare la sua straordinaria mimica facciale perchè un film non propriamente indimenticabile diventi un appuntamento imperdibile. 

Gli Anni 70 al Cinema

Gli Anni 70 al Cinema

Verso la fine degli Anni 60 il progressivo declino dell’industria cinematografica americana giunge alla sua fase finale. Ai vertici degli Studios – ormai tutti controllati da grandi gruppi economici – si installa una squadra di giovani leve. In questo contesto di crisi, alcuni film prodotti con mezzi limitati ed in modo indipendente si trasformano in trionfi inaspettati. Si tratta di pellicole legate al clima della rivolta giovanile di quel periodo, che segnano una netta svolta col passato, ed il cui successo dà l’impulso giusto per inaugurare una nuova fase, nota come New Hollywood. Gli Studios cominciano a dar fiducia ad un gruppo di giovani cineasti che introduce una sensibilità più moderna ed aderente alla realtà. Negli Anni 70 il cinema americano vive così uno straordinario rinnovamento e attraversa un momento di libertà senza precedenti. Alla figura del regista, finalmente “autore” del proprio lavoro, viene concessa una maggior autonomia creativa e questo determina una grande varietà di stili figurativi. Da una parte si filma con uno sguardo lucido, disincantato e quanto mai realistico i mali di una società profondamente traumatizzata e divisa dalla guerra del Vietnam e dallo scandalo Watergate. Dall’altra si rielaborano e si rivitalizzano secondo un linguaggio molto esplicito, distantissimo dalle precedenti convenzioni stilistiche e di contenuto, i generi classici del cinema: il western, il noir, la fantascienza, l’horror.  Sono questi gli anni – fra gli altri – di Francis Ford Coppola [Il Padrino, Il Padrino Parte II, La Conversazione e Apocalypse Now], Martin Scorsese [Mean StreetsTaxi Driver e New York New York], Steven Spielberg [Lo Squalo e Incontri Ravvicinati], George Lucas [American Graffiti e Guerre Stellari], Woody Allen [Io e Annie e Manhattan], Hal Ashby [Harold e Maude Oltre il Giardino], Michael Cimino [Il Cacciatore].  In questo modo, i cosiddetti “ragazzacci” del Cinema Americano, aiutati anche da una nuova generazione di attori-icona [Robert De Niro, Jack Nicholson, Al Pacino, Dustin Hoffman, Gene Hackman, Diane Keaton, Faye DunawayMeryl Streep], riescono finalmente ad emanciparsi dallo strapotere televisivo – rivendicandone una superiorità che oltre che estetica è di contenuto –  e ad ottenere un formidabile successo commerciale. 

Quanto all’Europa, mentre rinasce il Cinema Tedesco, si avviano verso la loro conclusione la Nouvelle Vague, la Commedia all’Italiana e la stagione degli spaghetti-western. In Italia il regista che realizza i progetti più ambiziosi è Bernardo Bertolucci con i suoi Ultimo Tango a ParigiNovecento.

Woody Allen ed il jazz

Woody Allen ed il jazz

Sicuramente il jazz per Woody Allen è una delle cose per cui vale la pena di vivere. Infatti, eccetto le volte in cui è ricorso alla musica classica e lirica, e quelle – ancor più rare – in cui la colonna sonora è stata realizzata ad hoc, la maggior parte dei suoi film è contrappuntata da splendidi, vecchi brani jazz. Come Owen Wilson in Midnight in Paris anche Allen è attratto dai suoni di un glorioso passato. Per contro, in più di un’intervista ha dichiarato la sua avversione per tutta la musica più recente: «Poi vedi quattro tizi con le chitarre e diecimila persone con le fidanzate sulle spalle, tutti a torso nudo, musicisti e pubblico, i musicisti con le pitture di guerra in faccia, la musica amplificata all’inverosimile, le chitarre spaccate sul palco…, sono cose che non mi dicono niente. È evidente che sono rimasto indietro, ma mi sta bene così».

Le predilezioni del regista vanno alla musica dei primi anni del novecento di New Orleans [quella che ama anche eseguire quando si esibisce in veste di clarinettista con la propria band] e al repertorio jazz degli anni 30 e 40: quindi Duke Ellington e Louis Armstrong, Billie Holiday e Harry James, Glenn Miller e Benny Goodman, Irvin Berlin e Tommy Dorsey, fino a Django Reinhardt a cui è dedicato Accordi e Disaccordi. La musica nei suoi film non si limita ad una funzione ornamentale, ma ne costituisce l’essenza stessa. Serve sia per disegnare un immaginario ed una linea poetica, sia a fini narrativi, come elemento di una messa in scena che – in aggiunta ad immagini e dialoghi – si fonda proprio sull’aspetto sonoro per meglio presentare e descrivere personaggi e situazioni: «Se senti il bisogno di esprimerti e non possiedi alcun mezzo per farlo, la musica è un grosso aiuto: sostiene parecchie scene in modo efficace, può essere decodificata e dà significato a molte sequenze».

[audio:http://dl.dropbox.com/u/11584263/songbefore.mp3,http://dl.dropbox.com/u/11584263/misbehave.mp3,http://dl.dropbox.com/u/11584263/stardust.mp3 |titles=I’ve Heard That Song Before,Let’s Misbehave,Stardust|artists=Harry James,Irving Anderson,Louis Armstrong]
Il 2011 al Cinema

Il 2011 al Cinema

Per quanto mi riguarda, a differenza degli anni precedenti, il 2011 non ha prodotto alcun capolavoro. Però ci son stati diversi piccoli/grandi gioielli [alcuni dei quali non compresi da tutti] che hanno costellato le mie personali visioni negli ultimi 12 mesi. Chissà se è un caso che 3 dei 5 registi in cima alla mia top five siano ultrasettantacinquenni. E’ comunque un fatto che Woody Allen, Clint Eastwood e Roman Polanski continuino a realizzare pellicole di pregevole fattura a dispetto dell’età e delle lunghissime carriere. In quest’ottica è da rimarcare anche la formidabile prova dell’ottantaseienne Michel Piccoli che contribuisce non poco al successo e a alla qualità dell’ultimo lavoro di Nanni Moretti. Invece J.J. Abrams ha solo 45 anni, eppure dirige il suo film più riuscito rielaborando a proprio modo atmosfere, tematiche e situazioni tipiche di pellicole di 30 anni fa. 

E’ forse il segno che il Cinema manchi di nuova linfa vitale? Non credo, anche se la pletora di sceneggiature prelevate dal mondo del fumetto o da quello dei videogiochi, di remake, prequel, sequel e di saghe composte da almeno 4 o 5 episodi, denota sicuramente scarsa propensione [o coraggio] a proporre prodotti non meno che sicuri dal punto di vista commerciale. Dimenticando così che il pubblico non va soltanto inseguito, ma anche educato.

Midnight in Paris

Midnight in Paris

Midnight in Paris è un piccolo gioiello, in equilibrio perfetto fra romanticismo, poesia ed ironia. La storia è quella di Gil, uno scrittore di sceneggiature dozzinali con velleità da romanziere, che – durante un soggiorno a Parigi con la fidanzata con cui non ha nulla in comune – si rende conto di poter viaggiare nel tempo, trovandosi magicamente trasportato nella Ville Lumière degli anni ’20, dove incontra i suoi artisti più amati. Come accadeva ne La Rosa Purpurea del Cairo, l’unica via di fuga da una realtà insoddisfacente è la dimensione del sogno, e mentre nel film del 1985 Mia Farrow si rifugiava in un cinemino di periferia per dimenticare il suo misero quotidiano, qui l’ottimo Owen Wilson si tuffa nella magia dell’età dell’oro parigina. Dialoga di letteratura con Scott Fitzgerald e Hemingway, fa leggere il proprio romanzo a Gertrude Stein, suggerisce a Bunuel l’idea per uno dei suoi film più famosi, cena a  casa di Jean Cocteau, si imbatte in Dalì, e si invaghisce di una delle ex amanti di Picasso [un’incantevole Marion Cotillard]. Il piano onirico si mescola con quello reale e l’evasione diventa occasione per riflettere su se stesso e trovare il coraggio per seguire le proprie aspirazioni, anche se questo significa tagliare i ponti con la sicurezza di quanto conquistato fino ad allora.

Il nuovo film di Woody Allen è una riflessione elegante e piena di grazia sull’incapacità di vivere il presente. Una favola surreale e dolceamara dove l’amore – ancora una volta – è l’antidoto ad angoscie ed inquietudini. A cominciare dall’amore che il regista riversa nel raffigurare Parigi, senza mai relegarla nel clichè della cartolina. Per terminare con quello che il protagonista incontra, dopo aver finalmente compreso che il passato va metabolizzato senza alcuna mitizzazione. Il desiderio ossessivo di un altrove, una nostalgia che è una negazione, ci impediscono infatti di cogliere le opportunità di un presente che – come qualsiasi altra epoca – può regalarci aperture inattese e speranze di cambiamento. Sta a noi impegnarci nell’oggi per ottenere la nostra felicità.

I sogni e le illusioni di Woody

I sogni e le illusioni di Woody

«La vita è piena di rumore e furore e alla fine non significa nulla».  Prende le mosse da queste amarissime parole di Shakespeare il nuovo film di Woody Allen, che – seguendo le frenetiche vicende di due coppie in crisi, quella già attempata di Helena ed Alfie [un istrionico ed efficace Anthony Hopkins] e quella della loro figlia Sally – finisce col giungere alla stessa conclusione di una sua pellicola di 20 anni fa: Ombre e Nebbia, secondo cui «L’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira». Sono infatti coloro che accettano di vivere nell’illusione, gli unici capaci di godersi l’esistenza anche solo per un istante. Intorno a questo concetto, su cui si innesta una considerazione cinica e spietata sulla vecchiaia, il regista – che ha da pochi giorni compiuto 75 anni – sviluppa Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni. Una commedia agrodolce a cui manca l’umorismo dissacrante dei tempi migliori, ma che comunque è  in grado di offrire riflessioni profonde ed intelligenti. I temi trattati sono tipicamente alleniani:  la disperata ricerca di risposte e soddisfazioni da parte della middle class colta e frustrata, alle prese con amori, tradimenti ed aspirazioni fallite, oltre che con le casualità della vita.

Concordo con Curzio Maltese che su La Repubblica scrive «Essere contemporanei di Woody Allen è una fortuna, come esserlo stati di altri geni prolifici e longevi, Georges Simenon per esempio. Ogni anno c’è un film che vale sicuramente la pena di vedere. Un altro capitolo di una commedia umana cominciata negli anni Settanta. Nuovi caratteri, altri memorabili personaggi e la filosofia di sempre. Ogni nuovo film di Allen è in fondo un apologo sul senso della vita, o sul non senso». Chi si aspettava le battute fulminanti di Basta che funzioni è rimasto deluso ed infatti il film ha spaccato la critica. Chi lo ha visto si è sostanzialmente diviso fra chi sostiene che ormai Allen fa sempre lo stesso film e chi – come me – spera che continui a farlo ancora per molto. «Per me non c’é differenza fra chi legge le carte, chi si affida a un biscotto della fortuna o ad una qualsiasi delle religioni organizzateha recentemente dichiarato il regista  – sono tutte ugualmente valide, o non valide. E tutte ugualmente d’aiuto. Ero interessato al tema della fede, al concetto del credere in qualcosa. Sembra banale ma tutti noi abbiamo bisogno di un’illusione per andare avanti e le persone che sanno illudersi sono più felici di quelle che non sanno farlo». Come dargli torto? Ma soprattutto: come negare che l’amore – che resta ancora in cima alla famosa lista di cose per cui vale la pena vivere – ancorchè illusorio, non meriti d’esser pienamente vissuto? In fondo non importa se sia vero oppure no, quel che conta è “che funzioni”.

Dieci anni al Cinema

Dieci anni al Cinema

In occasione della fine del primo decennio del secolo, i magazine italiani ed internazionali si stanno prodigando in classifiche di vario genere. Poteva il mio blog esimersi dal partecipare a questo momento di verifiche e bilanci? Certamente si, ma siccome ho a cuore la soddisfazione del mio sparutissimo drappello di fidi lettori, eccomi qua a pubblicare una personale “top ten” dei film usciti fra il 2000 e il 2009. Oltre alle pellicole ai primi 10 posti che elenco più in basso, voglio assegnare una particolare nota di merito a Il Pianista di Roman Polanski, ai due film di Tullio Giordana: I Cento Passi e La Meglio Gioventù, a The Others di Alejandro Amenabar, a La 25ª ora di Spike Lee, a tutto il lavoro di Clint Eastwood che in questi ultimi 10 anni si è costantemente mantenuto su livelli di eccellenza, a Christopher Nolan che si è affermato come uno dei maggiori talenti della “nuova” generazione di registi, a Paolo Sorrentino, il più originale e bravo cineasta italiano, ed infine alla Pixar che ha davvero rivoluzionato il mondo dell’animazione, realizzando alcuni nuovi classici senza tempo.

Ecco quindi i miei magnifici 10… ed i vostri?

Basta che funzioni

Basta che funzioni

Ho sempre ritenuto che una profonda sensibilità personale non possa essere disgiunta da un malessere sottile, da un’ indefinita inquietudine, o – per intenderci – da ciò che molti chiamano mal di vivere: «Si vive una sola volta, e qualcuno, a ben vedere, neppure una». Per questo motivo amo Woody Allen. Perchè come mai nessun altro è riuscito a dare a questi temi una riconosciuta cittadinanza cinematografica, declinandoli – e qui sta il genio – su un piano di indulgente, ma al tempo stesso dissacrante umorismo: «Il cibo in questo posto è veramente terribile. Inoltre le porzioni sono scarse. Beh, questo e’ essenzialmente quello che io provo nei riguardi della vita: piena di solitudine e squallore, di guai, di dolori, di infelicità… e oltretutto dura troppo poco».
 
Con Basta Che Funzioni Woody Allen riporta il suo cinema a New York, e – riadattata una sceneggiatura scritta quasi 40 anni fa per il grande Zero Mostel – colloca di nuovo al centro della scena il proprio “pessimismo cosmico“, realizzando una delle sue commedie più intelligenti e brillanti. Sollevato dal fatto di non essere il protagonista, il regista 73enne può spingersi ancora più in là di quanto fatto in passato nel delineare il suo antieroe tipo, caricandolo anche di dosi inedite di cinismo e misantropia. Caustico ed antipatico al punto giusto, Larry David convince nella parte di un fisico giunto quasi alle soglie del Nobel, che dopo un matrimonio trentennale finito male ed un suicido fallito, lascia la comoda professione di accademico per insegnare scacchi a dei bambini che non si fa alcun scrupolo di maltrattare senza pietà. Ritmo serratissimo, dialoghi smaglianti e tempi comici perfetti danno un mordente particolare alla storia, per quanto questa non sia altro che una sorta di collage di precedenti opere del regista. Ed è proprio ad una comicità tornata tranciante e corrosiva che Allen affida il compito di dimostrare come la vita sia del tutto priva di senso, nonostante l’umanità si affanni da sempre a trovarne uno.  Non è pertanto casuale che il protagonista, sia all’inizio che alla fine del film, si rivolga direttamente al pubblico, smascherando da subito l’artificiosità della pellicola, la sua sciocca pretesa di concepire una rappresentazione assennata della realtà. Il mondo è governato unicamente dall’irrazionalità del fato. Tutto nasce per caso: gli incontri, gli amori, gli antagonismi, la ricchezza, la rovina, la felicità, ed è esattamente alla luce di questa consapevolezza che il finale del film si rivela solo in apparenza consolatorio: «Qualunque amore riusciate a dare o ad avere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare, qualunque temporanea elargizione di grazia, basta che funzioni».