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Categoria: classici

Gli Anni 90 al Cinema

Gli Anni 90 al Cinema

Negli Anni 90 si assiste alla definitiva affermazione del cinema hollywoodiano postmoderno, nato nel decennio precedente. Un cinema di citazione, contaminazione, riscrittura dei generi, che si si concentra prevalentemente sul proprio potenziale seduttivo, ponendo spesso l’accento sugli aspetti scenografici, sull’uso degli effetti speciali, sulle innovazioni tecnologiche. In questi anni si va delineando in modo netto la tendenza ad inserire nei film un numero sempre maggiore di immagini digitali. Toy Story del 1995 è il primo film realizzato interamente al computer. Il cinema diventa a tutti gli effetti digitale, segnando una vera e propria rivoluzione in cui, dopo 100 anni, abbandona il suo elemento base e il suo simbolo: la pellicola.

Quanto al cinema italiano, gli Anni 90 vedono una serie di riconoscimenti a livello internazionale: Gabriele Salvatores vince l’Oscar per il miglior film straniero con Mediterraneo nel 1992, Federico Fellini riceve l’Oscar alla carriera e Roberto Benigni ottiene 3 Oscar nel ’99 per La vita è bella

I Classici del Cinema – Rosemary’s Baby

I Classici del Cinema – Rosemary’s Baby

La vicenda narrata è quella di una coppia [Mia Farrow e John Cassavetes] che si trasferisce in un appartamento di New York e scopre di essere vittima di una setta satanica che congiura contro il bimbo che la donna porta in grembo, aiutata in questo dal marito. Rosemary’s Baby [1968] di Roman Polanski è uno degli horror più riusciti della Storia del Cinema, in cui si ritrovano molti dei temi tipici del regista polacco: il tradimento, la corruzione, i confini della normalità, il disagio interiore. Ha avuto un successo tale da dare origine ad una serie di lungometraggi sull’occulto che è durata per tutto il decennio successivo.

Il suo aspetto più impressionante non è tanto la connotazione demoniaca, quanto piuttosto il fatto di essere calato in un’ambientazione quotidiana ed estremamente realistica, così da scatenare le paure più ataviche. Il tradimento del marito suggerisce l’idea che familiari ed amici possano trasformarsi nei nostri peggiori nemici. La protagonista scopre infatti di non conoscere le persone che la circondano e di non potersi fidare di nessuno, ritrovandosi senza alcuna protezione contro il male che ha invaso la sua vita. Manipolando le nostre paure esistenziali Polanski ha realizzato un capolavoro angosciante, con un cast magistrale, una colonna sonora indovinata, una sceneggiatura costruita con assoluta maestria ed una regia perfetta che fa intuire il male, senza però mai mostrarlo. Un lavoro indimenticabile in cui risulta impossibile non identificarsi con Rosemary e non pensare: «Potrebbe succedere anche a me». Negli anni il film ha assunto una fama particolarmente sinistra. Quasi sia stato profetico, è parso rimandare prima di tutto allo spietato assassinio della moglie di Polanski, Sharon Tate, incinta di 8 mesi, avvenuto nel 1969. Quindi all’omicidio di John Lennon del 1980, occorso proprio davanti al palazzo in cui la pellicola è ambientata.

I Classici del Cinema – Quarto Potere

I Classici del Cinema – Quarto Potere

L’American Film Institute lo ha nominato il miglior film di tutti i tempi. La leggenda di Quarto Potere [1940] nasce ancor prima della sua realizzazione, quando ad un giovanissimo regista, giunto dal teatro e dalla radio, la RKO decide di concedere una libertà d’espressione senza precedenti. Il magnate dell’editoria William Hearst, alla cui vita il film si ispira, muove mari e monti per fermare la realizzazione della pellicola e, non riuscendoci, mette in campo il suo enorme potere mediatico per tentare di screditarla. Ma al di là di questo, Quarto potere è di straordinario interesse per innumerevoli ragioni. Il film narra una grande storia: Charles Foster Kane [interpretato in modo brillante dallo stesso Orson Welles] è nato povero, ma diventa ricco grazie ad una miniera d’oro ricevuta in eredità. Inizia a mettere in piedi un impero di giornali e radio populisti, candidandosi anche a governatore. La conquista di un potere più solido però non riesce e Kane diventa sempre più dispotico e misantropo, fino a morire in solitudine in una sorta di castello mai terminato.

Il film inizia con la sua morte e con la sua ultima enigmatica parola: “Rosabella“, a cui un gruppo di reporter cerca di dar conto intervistando molte delle conoscenze del magnate. Tutta la vicenda è quindi raccontata per flashback, secondo il punto di vista degli intervistati, in una complessità narrativa assolutamente inedita per Hollywood. Inoltre una vera rivoluzione del film sta nelle sue riprese: prima di Quarto Potere lo stile fotografico vigente si basava sull’uso di un’illuminazione diffusa e del flou. Una tipica sequenza consisteva in un campo lungo o medio introduttivo, inframmezzato da primi piani in cui venivano mostrati i dettagli. Welles invece, attraverso una nuova tecnologia per cui il primo piano, il mezzo campo e lo sfondo risultano tutti a fuoco nello stesso tempo, consente allo spettatore di scrutare ogni parte dell’inquadratura come mai successo prima di allora. L’unicità di questo capolavoro è quindi data dall’uso radicalmente nuovo delle tecniche di narrazione, dalla fotografia, agli effetti del sonoro, al montaggio.

I Classici del Cinema – Oltre il Giardino

I Classici del Cinema – Oltre il Giardino

Quando nel 1971 il romanzo Oltre il Giardino di Jerzy Kosinski viene pubblicato, Peter Sellers ne è letteralmente folgorato, tanto da inviare al suo autore un telegramma che dice «Disponibile nel mio giardino o fuori» con a fianco il numero di telefono. Il libro, una graffiante satira contro il potere politico fortemente condizionato dal fascino seduttivo della televisione, racconta le gesta di Chance, un cinquantenne analfabeta e ritardato che non è mai uscito fuori dalla villa di cui curava il giardino. La morte del suo vecchio padrone lo porta in mezzo alla strada, in un mondo che conosce solo attraverso i programmi televisivi. Un banale incidente lo mette in contatto con un anziano Senatore. Il candore di Chance viene scambiato per saggezza profonda ed alcune sue considerazioni casuali interpretate come acute riflessioni sulla condizione umana. Di equivoco in equivoco diventa una celebrità nazionale e si ritrova ad un passo dalla candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti.

Sellers insegue il sogno di portare sul grande schermo il romanzo di Kosinski per ben 8 anni, fino a quando – nel 1979 – il progetto si concretizza. La sceneggiatura è affidata allo stesso scrittore, mentre la regia viene curata da Hal Ashby, uno dei cineasti più rappresentativi ed intelligenti della New Hollywod. In mani altrui Oltre il Giardino avrebbe corso il rischio di trasformarsi in una parabola sciocca o in fiacca critica della credulità umana. Ma la sapiente e misurata direzione di Ashby, con la sua atmosfera tranquilla e crepuscolare, e l’immensa performance di Peter Sellers costituiscono l’innervatura di un lavoro delicatissimo, surreale e poetico insieme, connotato da una soave leggerezza che sa farsi sottile metafora di un mondo che – avendo smarrito i propri riferimenti culturali – non sa più distinguere il falso dal vero, o l’ignoranza dalla sapienza. Impossibile immaginare qualcun altro nei panni di Chance. Ad un personaggio che ha amato moltissimo, Sellers regala la sua interpretazione più memorabile. Giocando di sottrazione, l’attore inglese diventa una maschera compassata, apparentemente inespressiva, folle e lunare eppure credibilissima.

Gli Anni 80 al Cinema

Gli Anni 80 al Cinema

Altrettanto repentinamente di com’era nata, la New Hollywood conosce la sua fine all’inizio degli Anni 80. Il grande successo economico di film come Guerre Stellari e la conseguente nascita del fenomeno dei blockbuster aveva già da qualche anno spostato l’attenzione da lavori più autoriali verso pellicole maggiormente sfruttabili a livello commerciale. Il clamoroso fallimento del costosissimo I Cancelli dei Cielo di Michael Cimino del 1981 pone poi una pietra tombale sul cosidetto “Director System”. Non esistono più gruppi di registi riuniti intorno ad un manifesto di intenti, o legati da principi estetici e da categorie artistiche definite. C’è per contro una notevole frammentazione per cui ogni autore segue la propria strada. Le case produttrici si riappropriano del potere decisionale e del controllo sul lavoro dei registi, ripristinando un rigido sistema industriale, all’interno del quale rafforzarsi attraverso l’unione in compagnie con altri settori commerciali, dove poter sviluppare l’altamente remunerativa pratica del merchandising. Con queste premesse il Cinema Postmoderno che si afferma negli Anni 80 non può certo far leva sulla profondità dei contenuti, ma si concentra prevalentemente sul proprio potenziale seduttivo, ponendo l’accento sugli aspetti scenografici, sull’uso degli effetti speciali, sulle innovazioni tecnologiche. Mentre negli Anni 70 la realtà con le sue contraddizioni era al centro del racconto filmico, negli 80 il cinema torna ad essere illusione, fantasia, avventura. Si ripescano temi e forme del passato, in un procedimento di ibridazione di generi e stili. Un’operazione che mira a citare, de-costruire e riscrivere i classici, secondo modalità che hanno perso ogni caratteristica del tipico racconto di genere per assumere connotazioni di frammentazione e commistione. Blade Runner di Ridley Scott, C’era una Volta in America di Sergio Leone, e Gli Intoccabili di Brian De Palma ne costituiscono gli esempi più significativi.

Quanto al cinema italiano, gli Anni 80 raffigurano un periodo in cui ricostruire un’identità perduta, ricercare nuovi contenuti e tentare una rifondazione. Bertolucci e Tornatore conquistano l’Oscar, rispettivamente con L’Ultimo Imperatore e Nuovo Cinema Paradiso. La comicità popolare trova nuova linfa con autori come Verdone, Benigni e Troisi. Ma è con Nanni Moretti, capace di rappresentare contenuti importanti con ironia e leggerezza, che si determina il miglior connubio fra autorialità e commedia. 

I Classici del Cinema – La Grande Guerra

I Classici del Cinema – La Grande Guerra

Alberto Sordi e Vittorio Gassman sono una coppia di soldati cialtroni e sfaticati, tipici esempi di lavativi che verso la fine della Prima Guerra Mondiale si fanno simbolo di un esercito decimato ed avvilito. Dopo una serie di tragicomiche peripezie in cui cercano soltanto di evitare i pericoli del conflitto, vengono catturati dagli austriaci, i quali li minacciano di morte qualora non forniscano preziose informazioni. Stanno per cedere, quando di fronte al disprezzo verso il coraggio degli italiani dell’ufficiale austriaco che li interroga – «Gli italiani conoscono un solo fegato, quello con le cipolle che fanno a Venezia» – in un sussulto di dignità ed orgoglio nazionale, decidono di tacere – «E allora senti un po’, visto che parli così… Mi te disi propi un bel nient! Hai capito? Facia de merda!» – finendo così per essere fucilati.

Ne La Grande Guerra [1959] il conflitto non si limita a fungere da semplice cornice, ma è – a tutti gli effetti – un elemento di primo piano della vicenda. Mario Monicelli, grazie anche ai considerevoli mezzi messi a disposizione dal produttore Dino De Laurentiis, può fare uso di grandi scene di massa con un elevato numero di comparse, esaltando così una accuratissima ricostruzione storica. La sceneggiatura che mescola sapientemente ironia e comicità a passaggi amari ed altamente drammatici, incontra – ancor prima che la pellicola esca nelle sale – le feroci polemiche dell’ambiente politico, che stupidamente teme che il film infanghi la memoria dei caduti. Invece il lavoro del regista viareggino è uno splendido affresco corale, in grado di mostrare la guerra fuori da ogni retorica, dal punto di vista della trincea e dei soldati. Un’acuta riflessione storica, che demitizza la visione patinata e romantica della battaglia e dell’eroismo. «Altro che retorica e patriottismo» dichiara Monicelli «i soldati italiani erano una massa di straccioni che si spulciavano a vicenda. In fondo la guerra l’abbiamo vinta perchè austriaci e tedeschi decisero di non sopportare più tutte quelle perdite umane. Però né noi né i francesi abbiamo mai vinto una battaglia. Ce l’abbiamo fatta perchè i poveri cafoni analfabeti chiamati alle armi dal nostro Mezzogiorno vivevano come animali, in condizioni ancora peggiori di quelle dell’esercito, dunque perfino la vita al fronte poteva sembrare un miglioramento. Ma questo allora non lo aveva ancora raccontato nessuno». La contaminazione fra commedia e dramma – mai così felice come in questo capolavoro assoluto del Cinema Italiano, vincitore del Leone d’oro a Venezia – è resa indimenticabile dalla maestosa prova di Sordi e Gassman, coadiuvati da un parterre di formidabili comprimari, fra i quali Romolo Valli, Silvana Mangano, Folco Lulli e Tiberio Murgia.

I Classici del Cinema – Rebecca, la Prima Moglie

I Classici del Cinema – Rebecca, la Prima Moglie

«La scorsa notte ho sognato di essere tornata a Manderley». Così inizia Rebecca, la Prima Moglie [1940], con un suggestivo prologo di 2 minuti raccontato dalla voce fuori campo della protagonista, a cui fa seguito un lunghissimo flashback che compone il resto del film. Una giovane e timida dama di compagnia sposa Maxim De Winter, un ricchissimo gentiluomo inglese e si trasferisce nella sua dimora, lo spettrale castello di Manderlay. Qui deve affrontare l’ostilità della signora Danvers, la gelida governante che vive nell’adorazione morbosa per la prima moglie del padrone. Il ricordo ossessivo di Rebecca e il mistero che circonda la sua tragica morte spingeranno la giovane sull’orlo della pazzia. Tratta – come sarà anche per Gli Uccelli – da un romanzo di Daphne du Maurier, la pellicola è uno dei massimi capolavori di Alfred Hitchcock, qui alla prima prova negli Stati Uniti. L’unica – strano a dirsi – capace di conquistare l’Oscar come miglior film.

Il regista introduce da subito il tema del sogno e stabilisce l’atmosfera onirica che pervade tutto il film, riuscendo a stemperare le tonalità melò del romanzo, con la suspence del giallo ed il gotico dell’ambientazione. La narrazione, frutto dei ricordi della seconda signora De Winter [a cui un’indimenticabile Joan Fontaine conferisce la perfetta dose di vulnerabilità ed insicurezza], è funzionale ad instaurare un clima obliquo di paranoia, all’interno di una cornice apparentemente romantica. Rebecca, la prima moglie è in effetti un formidabile gioco di apparenze ed inganni. Nulla e nessuno sono ciò che sembrano, tutto è equivoco, ambiguo. Il film stesso, che – come detto – coincide con il racconto che fa il personaggio della Fontaine, non può, per questo motivo, rispondere ai criteri oggettivi della realtà. I contenuti presenti, a cominciare proprio da quello del “doppio” [sviluppato successivamente in lavori come La Donna che Visse Due Volte e in Delitto per Delitto], per andare poi al condizionamento del passato, all’innocente accusato ingiustamente, al senso di colpa, al sogno, sono già quelli tipici della filmografia hitchcockiana. Il regista inglese, come poi succederà con il motel di Norman Bates in Psycho, connota il castello di Manderley di una tale forza da renderlo a tutti gli effetti un personaggio centrale della storia, capace di custodire i segreti di Rebecca – così incredibilmente presente nella sua assenza – e permeare l’intreccio di un’opprimente atmosfera da favola nera. Magistrale è la regia, estremamente raffinata nella messa in scena e abilissima nell’evidenziare la complessità psicologica della storia.

I Classici del Cinema – Un Posto al Sole

I Classici del Cinema – Un Posto al Sole

«Il più grande film sull’America mai realizzato» scrisse Charlie Chaplin a proposito di Un Posto al Sole [1951]. La storia – tratta dal romanzo Una Tragedia Americana di Theodore Dreiser – è quella di George Eastman, un ambizioso giovane di provincia che si trasferisce in città per dare la scalata al successo. Crede d’esserci riuscito quando conquista l’amore di una giovane ereditiera. Purtroppo però ha già una relazione con un’operaia che attende un figlio da lui e si rifiuta di lasciarlo. Costretto a scegliere, George decide di eliminarla. La invita in una gita al lago, ma nel momento di agire desiste dal suo intento. Destino vuole però che la ragazza cada incidentalmente in acqua, morendo affogata. Per George si prospetta l’inizio di un vero e proprio incubo.

Il capolavoro di George Stevens – a suo modo una pellicola rivoluzionaria, vincitrice di 6 premi Oscar – è una commistione di diversi generi: dramma sociale, ma anche film sentimentale, legal thriller e noir. La cinepresa viene utilizzata sapientemente: a volte si mantiene distante, osservatrice imparziale, quasi assente. A queste riprese si alternano sia dei primissimi piani che proiettano il pubblico dentro gli stati d’animo e i sentimenti dei protagonisti, sia delle lunghe dissolvenze incrociate che fanno montare la tensione. Per Stevens è un grosso colpo di fortuna che l’allora 17enne Elizabeth Taylor [inizialmente non a conoscenza dell’omosessualità del partner] si innamori di Montgomery Clift, perchè in tal modo può profittare del loro affiatamento per filmare alcune delle scene d’amore più intense della storia del Cinema, fra le quali un memorabile primo piano in cui la Taylor sussurra maternamente a Monty «Tell mama, tell mama all». Dialogo andato poi perso nel doppiaggio italiano, perchè tradotto con un banale «Dimmelo George, dimmelo», ed invece assolutamente emblematico dell’importanza storica della pellicola. Infatti è proprio con Un Posto al Sole che il protagonista maschile di un film può – per la prima volta – mostrarsi fragile ed insicuro, ed assumere senza vergogna quella parte di debolezza che fino ad allora era considerata solo femminile, spianando così la strada a tutti quegli antieroi emotivi, inquieti e tormentati che da lì a breve sarebbero stati declinati in vario modo da Brando, Dean e dal primo Newman. Monty semplicemente giganteggia, connotando il film di una sorprendente forza drammatica. L’attore fornisce una prova suntuosa, ben evidenziando l’aspetto ambiguo del protagonista, combattuto fra la vita che aveva sempre desiderato ed il suo dovere. Un uomo che per un attimo riesce ad afferrare la felicità, ma che – a causa della sua natura e della sorte avversa – pone in essere una serie di azioni che lo condurranno ineluttabilmente alla tragica sconfitta.

Gli Anni 70 al Cinema

Gli Anni 70 al Cinema

Verso la fine degli Anni 60 il progressivo declino dell’industria cinematografica americana giunge alla sua fase finale. Ai vertici degli Studios – ormai tutti controllati da grandi gruppi economici – si installa una squadra di giovani leve. In questo contesto di crisi, alcuni film prodotti con mezzi limitati ed in modo indipendente si trasformano in trionfi inaspettati. Si tratta di pellicole legate al clima della rivolta giovanile di quel periodo, che segnano una netta svolta col passato, ed il cui successo dà l’impulso giusto per inaugurare una nuova fase, nota come New Hollywood. Gli Studios cominciano a dar fiducia ad un gruppo di giovani cineasti che introduce una sensibilità più moderna ed aderente alla realtà. Negli Anni 70 il cinema americano vive così uno straordinario rinnovamento e attraversa un momento di libertà senza precedenti. Alla figura del regista, finalmente “autore” del proprio lavoro, viene concessa una maggior autonomia creativa e questo determina una grande varietà di stili figurativi. Da una parte si filma con uno sguardo lucido, disincantato e quanto mai realistico i mali di una società profondamente traumatizzata e divisa dalla guerra del Vietnam e dallo scandalo Watergate. Dall’altra si rielaborano e si rivitalizzano secondo un linguaggio molto esplicito, distantissimo dalle precedenti convenzioni stilistiche e di contenuto, i generi classici del cinema: il western, il noir, la fantascienza, l’horror.  Sono questi gli anni – fra gli altri – di Francis Ford Coppola [Il Padrino, Il Padrino Parte II, La Conversazione e Apocalypse Now], Martin Scorsese [Mean StreetsTaxi Driver e New York New York], Steven Spielberg [Lo Squalo e Incontri Ravvicinati], George Lucas [American Graffiti e Guerre Stellari], Woody Allen [Io e Annie e Manhattan], Hal Ashby [Harold e Maude Oltre il Giardino], Michael Cimino [Il Cacciatore].  In questo modo, i cosiddetti “ragazzacci” del Cinema Americano, aiutati anche da una nuova generazione di attori-icona [Robert De Niro, Jack Nicholson, Al Pacino, Dustin Hoffman, Gene Hackman, Diane Keaton, Faye DunawayMeryl Streep], riescono finalmente ad emanciparsi dallo strapotere televisivo – rivendicandone una superiorità che oltre che estetica è di contenuto –  e ad ottenere un formidabile successo commerciale. 

Quanto all’Europa, mentre rinasce il Cinema Tedesco, si avviano verso la loro conclusione la Nouvelle Vague, la Commedia all’Italiana e la stagione degli spaghetti-western. In Italia il regista che realizza i progetti più ambiziosi è Bernardo Bertolucci con i suoi Ultimo Tango a ParigiNovecento.

I Classici del Cinema – Viale del Tramonto

I Classici del Cinema – Viale del Tramonto

Il più famoso incipit della storia del Cinema introduce da subito il clima inquietante di questo capolavoro di Billy Wilder: un cadavere galleggia nella piscina di una villa hollywoodiana, mentre la polizia e i giornalisti si precipitano sul luogo del delitto. La voce fuori campo è quella dello stesso protagonista, un William Holden perfetto, il quale ripercorre le vicende che hanno portato al suo stesso omicidio. Joe Gillis è un giovane sceneggiatore al verde che capita nella vecchia e decadente villa di una star del muto. Norma Desmond [Gloria Swanson], ormai dimenticata da tutti, vive soltanto dei ricordi di quando era una grande diva. Insieme a lei il suo fedele maggiordomo Max [Eric Von Stroheim], che si rivelerà essere anche uno dei suoi antichi registi ed il primo marito. Joe acconsente a scrivere per Norma la sceneggiatura per un nuovo film, che lei – incapace di accettare di esser stata messa da parte – immagina come la sua grande rentrée. La donna finisce per innamorarsi del giovane, che – accecato dalla sua ricchezza – ne diventa il mantenuto, l’amante ed infine la vittima.

La voce off in Viale del Tramonto [1950] è ben più che un sorprendente espediente narrativo: è soprattutto una “voce-fantasma”, come fantasmi sono la villa, i suoi abitanti e il film che stanno preparando. La pellicola vive fin da subito di un’atmosfera macabra, che Wilder – ben supportato in questo da Stroheim – sottolinea in ogni passaggio e che la colloca all’incrocio fra il noir e il gotico. E’ proprio di Stroheim l’idea di far scrivere all’ex marito della diva finte lettere di ammiratori, per lasciarle l’illusione d’essere ancora amata. Addirittura l’attore regista viennese suggerisce di girare una sequenza in cui lo si veda lavare la biancheria di lei – le mutandine – per rimarcare un rapporto di totale asservimento. Ma Wilder rifiuta la proposta: «Avevamo già abbastanza noie con la censura»Viale del Tramonto mescola in modo angosciante realtà e finzione. La Swanson era davvero un’attrice ormai caduta nell’oblio e Von Stroheim l’aveva realmente diretta nel film che lei fa proiettare nella villa. Tutto quanto riguarda lo specifico cinematografico: i discorsi di sceneggiature, la vita degli studios, persino il mitico cancello d’ingresso della Paramount. La protagonista vive prigioniera del proprio passato e di una folle nostalgia per il cinema muto: «Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo». Questi aspetti rendono il film di Wilder una denuncia impietosa dei meccanismi dello star system e il ritratto più oscuro e cinico della realtà hollywoodiana. Per tale motivo la sua uscita avvenne fra le polemiche. Louis B. Mayer accusò apertamente il regista: «Hai disonorato l’industria che ti ha dato da mangiare, dovresti essere incatramato, ricoperto di piume e sbattuto via da Hollywood».